Il governo più muto della storia lunedì potrebbe decidere di impedire l’uso dei contanti al di sopra dei 300euro. Abbiamo già detto come questa norma sia illiberale, iniqua e pure inutile ai fini del controllo dell’evasione fiscale. Inoltre la modalità impositiva è sempre odiosa, soprattutto quando si potrebbe ottenere lo stesso risultato rendendo semplicemente più conveniente il pagamento elettronico.
Chi per lavoro o per vacanza abbia girato un po’ per il mondo sa quanto la carta di credito o il bancomat internazionale siano le prime cose da mettere in valigia, anzi, in portafoglio. Piccole tesserine di plastica che hanno definitivamente pensionato altre forme di trasporto di valuta e pagamento quali i contanti (che averne in tasca in una certa quantità, soprattutto all’estero, dà sempre un po’ d’ansia) o gli obsoleti traveler’s cheques.
In alcuni paesi l’uso della carta di credito è consuetudine diffusa anche per comperare il pane, in altri no. Il discrimine è la convenienza, ovvero i costi che gravano sulle transazioni elettroniche. Le carte di credito e il bancomat hanno, in genere, per l’utilizzatore un costo annuale; mentre quelle gratuite, le cosiddette ricaricabili, di solito riservate prudenzialmente per le operazioni on-line, hanno degli oneri di accredito che possono arrivare tranquillamente ai 5 euro e un costo/riga di 1 euro. Se non è strozzinaggio, poco ci manca.
Ma il vero business per gli istituti di credito e per le società emittenti è sul fronte di chi fornisce beni e servizi. Infatti al negoziante viene applicato, oltre ad un canone mensile, un costo/riga che può variare dai 2,5% fino oltre al 4% sull’importo della transazione. Di ogni transazione. Significa che per un movimento elettronico di 1000euro giornalieri (importo facilmente raggiungibile anche da realtà commerciali di modeste dimensioni) il costo sia pari a 40euro. Cifra che in un mese rappresenta quasi l’equivalente di uno stipendio. Ovvio che il commerciante cerchi di farsi pagare in altro modo.
Se questa norma verrà introdotta – conti alla mano – sarà un enorme regalo per le banche e per le società emettritrici di carte di credito e, di conseguenza, una tremenda bastonata per tutti i cittadini.
C’è sempre la possibilità di usare gli assegni bancari, ma questo tipo di pagamento è rimasto confinato nei rapporti commerciali consolidati (spesso usati come cambiali improprie), non essendo nessuno così pazzo da accettarne da sconosciuti.
Il flusso del denaro elettronico potrebbe aumentare se questa forma di pagamento fosse meno costosa. È indubbio, infatti, che le tesserine di plastica verrebbero preferite alla cartamoneta, almeno dalle fasce meno anziane della popolazione, in quanto più sicure e comode. Pur essendo coinvolte società private il governo potrebbe fare molto, soprattutto ora, con un cotanto osannato genio europeo dell’antitrust alla sua guida.
Tutto questo però non mette a fuoco il vero e unico problema: che fine fanno i soldi pubblici? Se la pur enorme tassazione diretta ed indiretta è insufficiente a tenere in piedi questo Stato, come vengono spesi questi soldi, i nostri soldi? Prima di tracciare ogni scambio commerciale tra cittadini e prima di aumentare ulteriormente le tasse sarebbe più giusto e trasparente si sappia con chiarezza che fine fanno i denari dei contribuenti.
È di pochi giorni fa la notizia che il ministro Severino sta pensando di riutilizzare i braccialetti elettronici come misura alternativa alla detenzione, visto il sovraffollamento delle carceri. Era il 2 febbraio 2001 quando l’allora ministri all’Interno e alla Giustizia, Enzo Bianco e Piero Fassino, durante il governo Amato, introdussero l’uso di questa forma di espiazione della pena, rivelatasi fallimentare, costata 110 milioni di euro alle casse dello Stato, attualmente utilizzata da un unico condannato.
Questo è solo uno degli ennesimi episodi che dimostrano come vengano sprecati o peggio – vedi i vari innumerevoli casi Penati, o il recente scandalo rifiuti lombardo – i denari dei contribuenti. Il governo si prepara ad introdurre un inasprimento fiscale che creerà ulteriore depressione, stringendo ancor più il cappio al collo alla parte produttiva del paese: artigiani, commercianti, piccole e medie imprese, ma nulla sembra muoversi nella direzione di impiegare in modo più efficiente e controllato le risorse esistenti.
Giusto prendersela con l’idraulico che non emette ricevuta fiscale, ma a Giuliano Amato, Enzo Bianco e Piero Fassino (usati ad esempio, il discorso vale per tanti, troppi altri, ovviamente) cosa bisognerebbe fare, allora?
Non ci stancheremo mai di ripeterlo: è giusto pagare le tasse, possibilmente eque e moderate, ma è divenuto imperativo i cittadini sappiano che fine fanno i loro denari. In modo dettagliato e trasparente. È intollerabile spremere all’osso gli italiani, colpirli sulla casa, le pensioni e in mille altri modi fantasiosi e continuare a permettere assunzioni clientelari, sprechi, sperperi e ruberie.
Si mettano on-line i costi della macchina dello Stato, di ogni livello amministrativo, in modo completo e chiaro. È giusto il cittadino sappia quale fine facciano i suoi sacrifici, come è giusto che chi ruba vada in galera e chi amministra male non diventi pure sindaco di Torino.
Paolo Visnoviz, 2 dicembre 2011
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