La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra. (Mao Tse-tung)
La classe politica è morta, manca solo la certificazione ufficiale che avverrà presto, alle prossime amministrative o nel 2013, alle prossime elezioni politiche. È finita la ventennale contrapposizione cui eravamo abituati, equalizzata su un’unica linea regolata a partita doppia. Unificati i moderati di destra e di sinistra rimarranno i leghisti, i grillini, i comunisti e forse l’Idv a fare una opposizione più o meno convinta, più o meno di convenienza. La competizione elettorale assomiglierà ad un concorso per un incarico a pubblico impiego, da svolgere dalle otto alle due, vuoto di pensiero. I partiti odierni semplicemente spariranno, per non essere stati capaci di cambiare nulla, nemmeno loro stessi.
Fin’ora la classe politica ha continuato, anche dopo l’adesione all’Euro, a comportarsi esattamente come sempre, tutelando le proprie clientele, mantenendo enti utili solo ai trombati di turno, famigli ed amici, incrementando la spesa statale e di conseguenza aumentando un debito pubblico che non si può più definire sovrano. L’intero sistema sociale è stato plasmato su false convinzioni ideologiche, impossibili da essere sostenute aritmeticamente. La crisi da spread, la sospensione della democrazia, la supplenza del governo tecnico sono semplici conseguenze del fatto che l’Europa ha chiuso i cordoni della borsa, impedendo aumentasse il debito pubblico e minacciando di non rinnovare l’esistente. Fine dei giochi.
Con Mario Monti siamo entrati nell’era della «cultura della stabilità» (di bilancio). Nella puntata de L’Infedele su La7 del 26 settembre scorso il Professore ha affermato che «Oggi stiamo assistendo al grande successo dell’euro e la manifestazione più concreta di questo successo è la Grecia, costretta a dare peso alla cultura della stabilità con cui sta trasformando se stessa». Non sono affermazioni di un folle. L’allora futuro Premier era perfettamente consapevole, anche ben prima di quel settembre 2011, che la crisi della Grecia era drammatica e che Papandreu aveva appena imposto una nuova tassa sugli immobili da 2,5 miliardi di euro per ottenere un prestito Ue da 8 miliardi. E ancora: «Come lei sa io non avevo né responsabilità europee né italiane all’epoca dell’operazione Alitalia, ma io non avevo una opinione favorevole su quella operazione», affermazione del 22 gennaio 2012 ospite da In Mezzora, condotto da Lucia Annunziata. In altre occasioni aveva già affermato fosse sbagliato difendere la compagnia aerea di bandiera in virtù di un nazionalismo anacronistico nel contesto europeo, dove le aziende devono godere totale libertà di movimento. Difatti, coerentemente, a fine dicembre Edison è passata ai francesi di Edf, transizione sempre osteggiata da Berlusconi, ma che non ha trovato opposizione alcuna in Monti. Praticamente una delle prime operazioni del governo dei professori, insediatosi il 16 novembre 2011.
“La cultura della stabilità” sembra in Monti un obiettivo ineludibile, obbligato e da perseguire ad ogni costo, anche con metodi liberisti, piuttosto che liberali. Questa è lo zenit del Professore, in perfetta sintonia con Draghi il quale proprio ieri ha affermato che «il modello sociale europeo è superato», intendendo non più sostenibile. Il Professore sa benissimo quali siano le cause prime della spesa pubblica incontrollata, ma deve agire entro i confini del possibile, conscio di non poter attaccare frontalmente le stesse fondamenta che lo sorreggono: il Parlamento. Compito difficile quello di affamare la bestia senza che se ne accorga. Inoltre, non è immaginabile Mario Monti non sappia che un simile carico fiscale è la causa principe della depressione nella quale siamo precipitati; quindi quale potrebbe essere la strategia del Prof.?
Il momento in cui Mario Monti si è insediato era gravissimo, con la liquidità statale a secco: «Abbiamo rischiato di non pagare gli stipendi», disse ospite da Vespa il 6 dicembre 2012. Da qui la necessità di fare immediatamente cassa, aumentando la pressione fiscale indiretta (benzina, tabacco, ecc.) e l’introduzione della patrimoniale, l’Imu, che porterà i suoi benefici (o malefici) a breve e la riforma delle pensioni. Provvedimenti draconiani, impopolari, e (non tutti) recessivi, ma iniziati già con il precedente governo Berlusconi (aumento Iva, benzina, sigarette).
Contro queste misure si sono scatenati tutti i liberali della prima e dell’ultima ora, ma adesso stiamo assistendo ad uno scenario diverso, dove a fianco del tentativo (fallito in buona parte, almeno per il momento) di far partire le liberalizzazioni si cerca di effettuare riforme più profonde, come quella sull’art. 18. Ma la volontà di cambiamento potrebbe non fermarsi qui e, seppur in modo ancora piuttosto velato, potrebbe farci assistere ad uno scontro di classe di nuova matrice, dove a contrapporsi non sarebbero più padroni verso operai, ma tecnocrati contro politici. Popolo pagante in tribuna. E bisogna tifare i primi, per forza, in uno scontro senza esclusione di colpi. Venghino signori, venghino che lo spettacolo è già iniziato.
Tutti hanno parlato della pubblicazione dei redditi dei ministri, ma che importanza può avere conoscere quanto hanno guadagnato i componenti della compagine di governo, trovando deboluccia la sbandierata necessità di trasparenza? Che senso ha rendere noto che il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha dichiarato per il 2010 un imponibile superiore ai 7 milioni di Euro? Per farci patire invidia o ammirazione a seconda delle nostre inclinazioni caratteriali? Ci fosse ancora, l’anonima sequestri ringrazierebbe, vien da pensare. Impliciti – si spera infondati – pericoli a parte, un senso c’è, a ben vedere. Solo pubblicando i redditi dei ministri si sono potuti diffondere pure quelli dei dirigenti dell’Amministrazione, scatenando così l’indignazione della pubblica opinione, da usare come grimaldello per tentare di ridurli per decreto. Perché i redditi di un valente professionista non sono discutibili, non gravano sulle casse dello Stato, anzi le rimpinguano, mentre il funzionario statale strapagato pesa in toto sulla collettività. E stipendi simili scatenano cori d’insulti sugli spalti, soprattutto in periodi di lacrime e sangue.
Analoga strategia potrebbe ravvisarsi per quanto concerne l’art. 18. Panorama seguito da Libero, ma nei prossimi giorni – c’è da giurarci – altri s’accoderanno, ha scoperchiato la pentola delle truffe perpetrate dai sindacati ai danni dell’Inps. Un colpo durissimo, forse mortale per una categoria divenuta nel corso del tempo sempre più parassitaria e lontana dalle istanze dei lavoratori, che vale almeno 2 milioni di euro – solo dalle prime superficiali stime – e che di certo obbligherà i sindacati ad occuparsi d’altro, perdendo credibilità e distraendoli dalle battaglie ideologiche. Certo, si può credere che questo segreto di pulcinella sia esploso proprio adesso per caso, ma il risultato non cambia e rimane una buona notizia per il ministro Fornero.
Tutto ciò mentre non si è ancora spento il caso Lusi e i suoi cascami hanno messo al centro dell’attenzione il sistema del finanziamento dei partiti: lecito (per tradimento di referendum), ma non per questo meno scandaloso. Questa vicenda ha creato molto malumore anche all’interno delle formazioni politiche stesse. Provate ad immaginare, per esempio, che effetto possa aver prodotto ad un militante leghista venire a conoscenza che la Lega Nord dispone di ben 30 milioni di euro, in parte investiti in Tanzania, mentre a lui viene chiesto di pagarsi la sede di partito, attaccare i manifesti – dopo averli fatti stampare a sue spese – e, nel caso venga eletto, di versare pure una quota del suo stipendio al partito! Per un attivista realmente convinto, pervaso da sacra passione, è un colpo durissimo, devastante. Anche questi scandali dobbiamo considerarli emersi proprio adesso casualmente? Sinceramente le coincidenze cominciano ad essere un po’ troppe.
Preferisco immaginare – forse illudendomi – che un esecutivo non dipendente dalla partitocrazia abbia fatto trapelare qualcosa alla stampa (ricordate il biglietto di Enrico Letta inviato a Monti e “casualmente” girato in favore di fotocamera?) per aprirsi la strada in un sistema politico-istituzionale marcio, che di questi privilegi e furti di stato si è sempre nutrito e li ha sempre dissimulati, complice tutto l’arco parlamentare. Così fosse, sarebbe una strategia da standing ovation.
La partitocrazia è in trappola e anche se non è ancora del tutto disarmata sembra proprio di assistere alle battute finali. È uno scontro epocale, che non riguarda solo il nostro Paese e che si sta consumando sulla pelle dei popoli, uno scontro non plateale, portato avanti con il sorriso sulle labbra, reciproci complimenti e frasi di circostanza, ma non per questo meno cruento.
Un conflitto da iscriversi nel novero delle nuove guerre, prive di ideologie e di obiettivi dichiarati perché non si combattono con masse in armi, ma con il consenso delle pubbliche opinioni, manipolabili con un click del mouse, come una primavera araba o dei titoli di stato.
Paolo Visnoviz, 25 febbraio 2012
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