Max Papeschi arriva alla digital-art dopo l’esperienza da autore e regista in ambito teatrale, televisivo e cinematografico. Come artista figurativo il suo approccio con l’Art-World è stato d’immediato successo sia di pubblico che di critica. Il suo lavoro Politically-Scorrect, mostra una società globalizzata e consumista rivelandone i suoi orrori in maniera ironicamente realistica. Dal Topolino Nazista al Ronald McDonald Macellaio le icone cult perdono il loro effetto tranquillizzante per trasformarsi in un incubo collettivo. Ha esposto i suoi lavori in molte gallerie in giro per il mondo.
Arte o comunicazione? C’è un confine, se mai c’è stato?
Penso di no, per quanto mi riguarda l’Arte è comunicazione o quantomeno dovrebbe esserlo, personalmente non vedo una netta distinzione tra quello che facevo prima come regista e quello che faccio oggi, alla faccia delle teoria di McLuhan, credo di aver cambiato il medium ma non il messaggio. Semplicemente muovendomi in questo campo ho una maggiore libertà di espressione e non devo rendere conto dei contenuti del mio lavoro a qualche produttore televisivo semianalfabeta.
Koons, Kubrick, Petri e Tarantino li hai citati come artisti che ti hanno ispirato. C’è qualcuno con il quale ti confronti direttamente, con cui parli dei tuoi lavori, oppure procedi solitario, inseguendo solo le tue ispirazioni?
Direttamente no, però è indubbio che parte del mio senso dell’umorismo sia stato influenzato dal loro lavoro, le ispirazioni invece le traggo da tantissime cose: fatti di cronaca, avvenimenti storici e immagini appartenenti sia alla cultura alta che a quella bassa. Per quanto mi riguarda la fase di documentazione prende una parte importantissima del mio tempo, mi riferisco un po’a tutto, dal leggere libri e giornali al guardare film e documentari. La realizzazione dell’opera in senso stretto è solo una fase successiva del mio lavoro, e probabilmente non la più interessante.
La cacciata dal paradiso, la deflorazione di Minnie, il crollo dell’impero occidentale. Sono tue parole che hai usato per descrivere la matrice che ha ispirato la tua ultima mostra di successo “Exit form heaven”. Crisi europea, economica, di pensiero, primavere arabe, indignados, ecc., cosa in questo momento cattura di più la tua attenzione e potrà influenzare i tuoi lavori?
Temo che tra non molto, la mia attenzione, insieme a quella di tutto il resto del pianeta si sposterò sulla guerra con l’Iran, spero di sbagliarmi ovviamente.
È uno scenario che temiamo in tanti. Ritornando al tuo lavoro. Per quanto riguarda l’arte contemporanea come spazi, attenzione dei media, accoglimento del pubblico sono molto differenti all’estero? Ovvero è vero che soffriamo di provincialismo o la digitalizzazione ha annullato tutto questo?
E’ un’abitudine tutta italiana quella di pensare che qualsiasi cosa all’estero sia meglio, il concetto stesso di “estero” in generale non ha senso: mentre in California e Germania per esempio si allestiscono mostre importanti e si percepisce un fermento interessante, lo stesso non si può dire per quanto riguarda il Vanuatu o la Tanzania. In Italia l’arte contemporanea soffre oltretutto una penalizzazione data anche dal fatto che nel nostro paese è custodito il 70% del patrimonio storico artistico mondiale (secondo i dati dell’Unesco), ciò significa che la quasi totalità dei fondi destinati all’arte e alla cultura sono impegnati nel mantenimento di questo patrimonio, mentre è sicuramente più facile per il governo canadese destinare l’intero budget al contemporaneo.
Anche le opere digitali hanno bisogno del mondo reale e delle vere mostre, perché?
Penso che anche per un’artista digitale sia importante avere un rapporto diretto con il pubblico, e questo accade appunto durante le inaugurazioni delle mostre, sarebbe molto triste esporre soltanto in gallerie virtuali e gestire tutta la parte commerciale via Ebay. E poi come potrei corteggiare le mie fan senza i vernissage?
I tuoi lavori grafici sono molto definiti, netti e lo scenario è poco “denso”. Quello che c’è si vede, non sembra vi siano messaggi “occulti” o da interpretare in modo simbolico. Quando lavori parti con una idea ben definita in testa e la realizzi, oppure si sviluppa in corso d’opera?
Si è vero, cerco di essere molto diretto con il mio lavoro, al limite ci sono diversi livelli di interpretazione della stessa immagine, ma questo è un’atro discorso. Di solito è durante la ricerca dei fatti e del materiale fotografico che sviluppo in concept, quando arrivo a lavorare sull’opera ho già le idee piuttosto chiare, salvo ripensamenti naturalmente.
Video, immagini, teatro. Quale preferisci, cosa trovi più “completo”?
Dipende dal messaggio che voglio comunicare. Però è indubbio che lavorare con le immagini digitali mi dà una libertà che con il video e con il teatro è quasi impossibile avere.
Per produrre un film o uno spettacolo teatrale in libertà assoluta, senza compromessi ed essere schiacciati dalle problematiche tecniche, bisogna disporre di capitali enormi, tempi lunghissimi di preparazione e collaboratori di vero talento (cosa molto rara). E anche ottenendo tutto questo, come capita solo nelle produzioni hollywoodiane, si ha poi a che fare con Major che impongono una serie incredibile di restrizioni sui contenuti e con la necessità di arrivare ad un pubblico molto ampio e poco preparato culturalmente.
Certo il fascino che subisco dal Cinema resta sempre molto forte però le possibilità che mi da l’arte digitale sono molto difficili da ritrovare in altri campi al momento.
Cosa pensi dell’astrattismo che, tutto sommato, a chi fa arte digitale sarebbe molto semplice, quasi naturale, ricorrervi?
Con Photoshop chiunque può realizzare in cinque minuti un’opera astratta perfetta per abbinarsi con il divano del salotto, un pò come mettere foto di paesaggi urbani a specchio o con l’effetto caleidoscopico, indubbiamente si ottiene un’ottimo risultato dal punto di vista estetico. Io però cerco di far passare dei concetti molto precisi con il mio lavoro e sarebbe quasi impossibile farlo in modo “astratto”.
Quindi i tuoi lavori contengono anche dei messaggi politici? Se sì quali?
Molte delle mie opere si possono descrivere come delle vere e proprie campagne pubblicitarie, provenienti da una realtà parallela tutto sommato possibile, se non probabile. Sono pensate come delle insegne propagandistiche alle quali mancano solo claim, body-copy e pay-off per essere complete; quello che vendono e promuovono sono i valori su cui si fonda la nostra società al netto di ipocrisie e menzogne.
Difatti sono molto efficaci. A cosa stai lavorando adesso, cosa ti frulla per la mente, visto che i tuoi lavori non sembrano frutto di intuizioni isolate, ma seguono e sviluppano tematiche?
Si è vero, raramente ragiono in termini di opera singola, di solito concepisco le mie personali come fossero dei veri e propri show con un tema centrale molto preciso, probabilmente questo deriva dal mio background da regista e autore. A Giugno presenterò finalmente una serie di lavori nuovi e inediti per l’Italia, del concept della mostra però al momento preferisco non parlare.
Paolo Visnoviz, 7 marzo 2012
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