Luca Telese, quasta sera su “La7”, ha iniziato la sua trasmissione con lo scandalo delle aziende che mettono in cassa integrazione i dipendenti al ritorno dalle ferie. Aziende che chiudono o esternalizzano o, ancora, delocalizzano. Scandalo, condanna morale e crocifissione per quegli imprenditori. Di Pietro, ospite di Telese, si è spinto a dichiarare che Letta dovrebbe fare una legge ad hoc per impedire a quegli imprenditori di andare all’estero: «Bisogna sequestrare i beni di quelle aziende che delocalizzano. Vuoi andare all’estero? la roba però la lasci qui.» Cose da esproprio proletario, da gulag per kulaki.
La retorica della solidarietà agli operai è insopportabile, stupida e inutile. Quando i migliori economisti facevano notare il semplice concetto della curva di Laffer (oltre ad un certa soglia la pressione fiscale rende l’attività economica non più conveniente e, di conseguenza, pure il gettito fiscale diminuisce), non parlavano di teoria, ma della pratica quotidiana, quella che ora è evidente a tutti. In troppi – i politici che dovevano decidere, ma anche quasi tutti i giornalisti – si trastullavano invece con i blitz della Gdf, usando il luogo comune del “se tutti pagassero” come una coperta di Linus, dichiarando e scrivendo del nulla, cercando di non vedere il problema, trasformando le vittime in capri espiatori.
Ora siamo vicini al dunque. Quelle aziende che chiudono, esternalizzano, delocalizzano, semplicemente cercano modi di sopravvivere, perché con una pressione fiscale vicina al 70% nessuno – nessuno sano di mente – può fare impresa. Non ce la fanno. E chi resiste, elude. Come può, quanto può: il più possibile, “io speriamo che me la cavo”.
Neanche adesso si vuole riconoscere la realtà, quella evidente, sotto gli occhi di tutti, anche adesso si vuole gettare la croce addosso a chi, per necessità di sopravvivenza, probabilmente disperato, è disposto ad un lancio nel buio per trasferirsi, abbandonando il tessuto connettivo della sua azienda tanto faticosamente costruito: i clienti, i fornitori piccoli e grandi, gli operai, i tecnici che hanno aiutato a strutturare e informatizzare l’azienda, gli specialisti, gli artigiani.
Non è l’imprenditore che chiude o delocalizza, quello che merita la condanna morale, non è chi dice “basta” e che però deve continuare a vivere, costretto ad inventarsi soluzioni radicali, da biasimare, ma la classe politica tutta, i sindacati, le banche e i tanti giornalisti-zerbini che hanno tenuto loro bordone per continuare a mantenere un tenore di spesa pubblica ormai insostenibile, scaricandolo sulle spalle di quegli imprenditori, liberi professionisti, artigiani, ecc. che oggi – solo perché si sono stancati – vengono bollati pure come ladri e speculatori. Gente che non ha scrupoli a mettere in strada intere famiglie – è la tesi farlocca – pur di guadagnare il massimo. E chi guadagna più? È almeno dagli anni ’90 che in questo Paese si lavora per sopravvivere e non per arricchirsi. Guai solo a pensarlo, di arricchirsi: è immorale!, oltre che quasi impossibile.
Di Pietro però ha continuato a regalarci perle di saggezza: «Lo stato è senza soldi, e dove si vanno a prendere? Intanto facendo pagare le tasse a tutti. E chi non le paga: in galera». Io, invece, ho un’altra idea.
Lo stato è senza soldi perché ruba, spartisce con logiche clientelari, spreca troppo e non ha intenzione di smettere, neanche in una situazione di crisi così drammatica, neanche se sarebbe l’unico modo per smettere di soffocare il tessuto produttivo e l’economia di tutta la nazione. Iniziamo allora a sbattere fuori dalla cosa pubblica gente come Di Pietro, che si è comperato appartamenti facendo pagare il mutuo al partito, quindi con soldi pubblici. Perché la galera non si augura a nessuno e per gentaglia simile non esiste peggior condanna di quella di non poter più tenere le mani in pasta. Sarebbe un inizio.
Paolo Visnoviz, 27 agosto 2013
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