Il gran vociare sulla riforma della legge elettorale trova uno stop, almeno momentaneo e parziale, davanti alle parole del Premier: “No al voto”. Non di sola strategia si tratterebbe quindi, ma di seria preoccupazione di consegnare, in caso di crisi, il Paese ad un “governo tecnico” con lo scopo principe di effettuare la riforma elettorale.
Non è chiaro in che direzione questa riforma debba essere fatta, collegio uninominale, abbassamento della soglia di sbarramento o del premio di maggioranza, voto di preferenza, liste bloccate o meno, qualcuno parla addirittura di un ritorno al proporzionale, ecc. Se le forze che chiedono a gran voce la riscrittura della norma sono ora tutte concordi, sospetto non lo saranno affatto se e quando la discussione dovesse entrare nel merito. Su questo punto mi sono espresso a più riprese, negando che la riforma della legge elettorale possa essere una panacea ai problemi di governabilità del Paese, tutt’altro. I partiti stessi dovrebbero introdurre un sistema meritocratico e democratico di selezione dei candidati, partendo dal basso, dal territorio, introducendo così un meccanismo che non preveda la scelta del concorrente con indicazioni calate dall’alto. Attualmente, a parte le primarie del PD svolte in modo piuttosto teleguidato, nessun partito sembra voler operare in questa direzione.
Altra critica piuttosto bislacca, spesso esposta nei confronti di questa legge elettorale, sarebbe quella che consegnerebbe la governabilità del Paese ad una minoranza. Falso. L’attuale maggioranza di Governo (PDL-Lega Nord-MPA) ha ottenuto 344 seggi alla Camera e 174 seggi al Senato, in virtù di oltre 17 milioni di voti contro 13,7 milioni dello schieramento avverso (PD e Di Pietro). Questo alla Camera, mentre al Senato il rapporto fu di 15,5 milioni contro 12,5 milioni di preferenze, sempre a favore dell’attuale maggioranza. Oltre 5,5 i milioni di voti polverizzati nelle decine di schieramenti minori solo alla Camera, quasi due i milioni di schede bianche o nulle.
Affermare che si è consegnato il governo del Paese ad una coalizione minoritaria, in virtù di una percentuale del solo 38% di voti, è quindi tecnicamente vero, ma concettualmente falso. Questo per il fatto che si vorrebbero assimilare forze disomogenee e l’ampia area di astenuti al voto ad una posizione antimaggioritaria. L’astensione, invece, non rappresenta un indice di protesta o di schifo o di disaffezione, piuttosto è una zona grigia, inespressa, non partecipe, una tempo definita “qualunquismo“. Ed è un termine corretto, in quanto chi non vota consegna le decisioni della vita politica del Paese ad una maggioranza: quella che verrà, qualunque essa sia. Se in quei voti mancati vi sia anche un’ampia zona di malcontento, è un dato inutile, privo di significato e di rappresentanza. Una voce afona, polverizzata in mille motivazioni e sommersa dall’indifferenza. Spesso le stesse compagini politiche che guardano con ammirazione agli ordinamenti democratici di altre nazioni, dimenticano di considerare che in quei Paesi, da loro elogiati e portati come esempio, la “zona grigia” arrivi a sfiorare anche il 50%. Nelle ultime elezioni politiche il nostro dato qualunquista si fermava soltanto al 20%.
Dato inevitabilmente destinato a crescere qualora vincesse la tesi delle tante fazioni che rappresentano i particolarismi, rafforzando la frantumazione piuttosto che l’accorpamento e quindi la semplificazione. Precipitando così nuovamente il Paese negli inciuci e negli intrallazzi, nei ribaltoni e nell’ingovernabilità. Un restaurazione della prima repubblica, che avrebbe come artefice e maggior responsabile proprio FLI. In principio con il tradimento – ai propri ideali prima che alla maggioranza – ed ora come convinto sostenitore della tesi che la legge elettorale andrebbe riformata.
7 ottobre 2010