«METODO FALCONE, METODO ULTIMO» Intervista a Roberto Longu, carabiniere della Crimor che arrestò Totò Riina.

Roberto Longu lei è stato un carabiniere dei ROS appartenente al gruppo Crimor, guidato dal Capitano Ultimo che ha catturato Totò Riina. Quando nacque il vostro gruppo e quanti ne facevano parte?
Il gruppo nacque a Milano negli anni ’88/’89, composto da una quindicina di persone. Si formò per il volere del Capitano Ultimo, il quale venendo dalla Compagnia Carabinieri di Bagheria (Palermo) si era accorto di infiltrazioni mafiose presenti a Milano. A quel tempo in quella città non si facevano indagini per mafia, magistratura e forze di polizia erano orientate piuttosto a combattere la criminalità comune e il terrorismo.

A chi facevate riferimento?
Il comandante della sezione era il Capitano Ultimo e facevamo direttamente riferimento alla sezione del ROS Centrale di Roma, al Comandante Mori.

Un giorno decideste di partire da Milano per andare a catturare Riina. In Sicilia. Sarebbe potuta sembrare una operazione destinata al fallimento certo, in quanto non conoscevate i luoghi, l’ambiente, le consuetudini, la gente.
Proprio questo, invece, è stata la nostra forza. È vero che è stato difficile infiltrarsi, ma la mafia e i suoi meccanismi li conoscevamo già, avendo lungamente operato a Milano contro questa organizzazione, arrestando personaggi di primissimo piano quali Antonino Carollo e altri. Una volta compreso il modus operandi e la psicologia di questi personaggi non essere del luogo può essere addirittura d’aiuto per la loro individuazione. In un habitat familiare è più difficile identificare comportamenti anomali, mentre da estranei – e con occhio allenato – può essere più semplice. È una tecnica che viene utilizzata anche in scenari di guerra: infiltrazione ed esfiltrazione. Infatti ogni 15/20 giorni ritornavamo a Milano proprio per non assuefarci troppo al territorio d’indagine. Ribaltammo il concetto, quello che era considerato il loro grande vantaggio – la troppa sicurezza – lo facemmo divenire un tallone di Achille. Fino alla cattura di Riina per le forze dell’ordine del luogo fu difficile indagare la cupola e comunque mai vi fu un attacco diretto al vertice di Cosa Nostra. Prima di sbarcare a Palermo avevamo messo al setaccio la vita di Totò Riina. Passammo due mesi ad analizzare la sua vita, studiando atti giudiziari, il suo modus operandi, verificando sul posto gli obiettivi di interesse. Ciò che Falcone aveva fatto dal punto di vista giuridico noi l’abbiamo fatto dal punto di vista militare: collegare episodi di Cosa Nostra, apparentemente slegati tra loro, in un unico quadro d’insieme. Sin dalla nascita questa è sempre stata la filosofia di Crimor e quello che ci ha insegnato il Capitano Ultimo.
Proprio la strage di Capaci fu la causa scatenante che fece prendere la decisione al nostro gruppo, senza che nessun ordine partisse dall’alto, di andare a catturare Riina. Conoscevamo Falcone, veniva spesso a Milano e si era creato un rapporto di amicizia e collaborazione. All’epoca, né questo magistrato né Borsellino erano gli eroi che oggi tutti descrivono. Erano osteggiati, fuggiti da molti come appestati, guardati con sospetto anche dai loro stessi colleghi e dal CSM che li considerava affetti da protagonismo. Era solo invidia. In realtà, faticando e lavorando con il suo pool, Falcone aveva dimostrato che Cosa Nostra poteva essere combattuta e messa alle corde. Questo dava molto fastidio ai suoi colleghi perché sottolineava la loro incapacità e in molti casi pure la malafede. Anche a Milano non era ben visto, così come la Bocassini, molto amica di Falcone, che lo seguiva nei metodi d’indagine. Entrambi erano guardati con sospetto per i loro sistemi innovativi che mettevano in discussione il vecchio modo di operare. La lunga guerra al terrorismo era finita da poco e la procura di Milano era stata in prima linea a combatterlo, contribuendo a sconfiggerlo. Quasi tutti erano ancora concentrati su quel fronte, solo Falcone e pochi altri avevano iniziato l’attacco frontale alla mafia. Pure all’estero godeva di altissima considerazione: pensi che alla scuola dell’FBI, a Quantico in Virginia, in suo onore hanno eretto una statua. In Italia a quei tempi, invece, i suoi stessi colleghi lo avevano isolato e come diceva il grande Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: “quando sei solo ed isolato diventi debolissimo e una facile preda.” Fu abbandonato non solo dalla magistratura palermitana, ma anche dalla politica. Non scorderò mai l’attacco in TV che Leoluca Orlando gli fece, sembrava volesse instillare il sospetto che il magistrato proteggesse i mafiosi. Uno schifo. Quando giunse la notizia dell’assassinio di Falcone, di sua moglie e degli uomini della scorta io ero a casa. Arrivò una telefonata e mi precipitai in ufficio. Trovai il Comandante e la Boccassini in lacrime, tutti erano sotto shock, qualcuno partì subito per Palermo. Noi provammo oltre al dolore una grande rabbia e decidemmo che avremmo dovuto fare qualcosa: arrestare il capo dei capi della mafia.

La cattura di Riina fu un grande successo, ma significò anche la fine della vostra squadra. Ultimo verrà addirittura processato e ne uscirà assolto. Fortunatamente la vostra eredità verrà ripresa dalla “Catturandi” della polizia di Stato di Palermo che arresterà Provenzano, Raccuglia e molti altri. Avete aperto loro la strada?
Credo di sì, abbiamo dimostrato che la mafia non era invincibile e che anche Riina, fino ad allora considerato quasi un mito, si poteva catturare. È stato un segnale importante per le forze dell’ordine che operavano sul territorio, ma anche per la gente comune. In molte persone la coscienza si risvegliò e trovarono la forza di alzare la testa.

Riuscendo anche a far arrabbiare qualche magistrato.
Lo scontro ROS/magistratura iniziò con Caselli e la procura di Palermo. Noi ci siamo sempre mossi senza direttive, andavamo dove ci portavano le indagini, non i magistrati. Magistrati che per Riina sono entrati in gioco quando è stato catturato e si è pentito Baldassare Di Maggio. I magistrati dovrebbero fare i magistrati, non condurre le indagini. Queste devono essere svolte dagli investigatori che vivono giornalmente sul terreno in cui ci si scontra, che stanno tra la gente e sanno quali strategie adottare. È un processo che richiede la padronanza di tecniche che bisogna conoscere in prima persona e che non si possono pianificare da dietro una scrivania. L’investigazione è simile alla guerra, ma invece che al fronte si consuma nella vita civile e nella società, adottando gli stessi principi e sistemi. Questi atti non si possono ordinare da dietro una scrivania come fossero una scienza esatta perché non lo sono. Bisogna avere “mestiere” e i magistrati in questo campo non ne hanno, anzi, spesso fanno dei danni enormi all’economia delle indagini, proprio per la loro arroganza e incompetenza. Non tutti la pensano così, altri preferiscono rinunciare alla propria iniziativa e stare sotto il cappello del pubblico ministero. Più comodo e certamente più sicuro, privo di responsabilità.

Ultimo, Mori, ma per vicende diverse anche Ganzer. Nei confronti di quest’ultimo, pur essendo stato condannato in primo grado, l’Arma non ha preso alcun provvedimento, ma così facendo si è schierata platealmente contro la sentenza. Scontro tra Arma dei Carabinieri e magistratura, quindi?
Certo, c’è da tempo in atto uno scontro tra una parte dell’Arma dei Carabinieri e frange di una magistratura politicizzata. Una magistratura di sinistra che opera come la “Stasi”, attaccando le Istituzioni e alcuni servitori dello Stato esclusivamente per motivi politici. Inquisiscono alcuni di noi per sostenere le tesi di un accordo Stato/mafia. Mi sembra molto chiaro il loro gioco: dimostrare che Mori trattava con la mafia per addossare la colpa di ciò allo Stato, quindi al Governo, quindi a Berlusconi. Vogliono dimostrare che Berlusconi è la mafia sono la stessa cosa. Cercano addirittura di revisionare i processi delle stragi. Praticamente la Procura di Palermo contro la Procura di Caltanisetta. Mi sembra una pazzia. Guardi le dico una cosa: si è parlato molto di Vittorio Mangano, io sono stato uno dei pochi ad averlo potuto avvicinare sotto copertura e ad analizzarlo per un periodo. Sicuramente è stato un delinquente ed un mafioso, ma non un capomafia come in molti lo hanno descritto. Bistrattato e addirittura preso a schiaffoni da un macellaio. Fosse stato un padrino ciò non sarebbe stato assolutamente possibile. Parlano di fatti riferiti al 74, a quel tempo la mafia e i mafiosi erano considerati meno dei delinquenti comuni e sicuramente non era la mafia di oggi. E’ troppo comodo giudicare fatti di 40 anni fa con gli occhi di oggi, se non è strumentalizzazione politica questa…

Tornando all’arresto di Riina, mi racconta la sua versione riguardo la mancata perquisizione della casa di via Bernini e la sospensione della sorveglianza?
Noi abbiamo preso delle decisioni in base alla nostre esperienze e a delle precise esigenze investigative. Mai dentro l’abitazione dei boss latitanti è stato trovato nulla di veramente importante. E’ un fatto normale. Come può un capo mafia, latitante e braccato dalle polizie di tutto il mondo conservare dentro la sua abitazione documenti compromettenti per l’intera organizzazione? Mai nulla di simile si è visto. Ritenemmo che per le indagini fosse stato meglio non procedere alla perquisizione, decisione squisitamente tecnica dettata da esigenze investigative. Si può discutere nel merito, se fosse stata presa la decisione giusta o meno, ma sicuramente non è stato fatto in malafede come hanno sostenuto i PM, accusando Mori e Ultimo di collusione con la mafia. Questa è vera malafede. E lo è ancora di più andando ad analizzare un altro fatto: dopo le dichiarazioni del pentito e prima della cattura di Riina, il Pm Vittorio Aliquò insisteva affinché si effettuasse una perquisizione all’interno di un luogo detto “Fondo Gelsomino”, dove Di Maggio, sulla scorta di memorie di 4 o 5 anni prima, raccontava Riina si recasse. Il capitano Ultimo si oppose, effettuare una perquisizione in quel luogo, vicino alla zona “calda”, avrebbe vanificato ogni possibilità di continuare le operazioni. Allora si trovò un compromesso: le indagini sarebbero continuate come il capitano voleva, ma sarebbe stata fatta anche una osservazione del luogo indicato dai magistrati. Ciò per verificare se valesse la pena effettuare veramente una perquisizione presso quel sito. Abbiamo chiamato “Pluto”, un nostro collega, e lo abbiamo mandato a fotografare i fichi d’india.

Fichi d’india?
Certo. Fichi d’india e un contadino che zappava la terra. Altro non c’era da fotografare, eravamo sicuri quel sito non avrebbe condotto a nulla, ma avessimo fatto quella perquisizione Totò Riina non sarebbe mai stato arrestato. Se la malafede esiste per i Carabinieri, perché allora non esiste anche per il Giudice Vittorio Aliquò che voleva fare una perquisizione in un luogo diverso da dove viveva Riina, ma così tanto, troppo vicino alla zona “calda”? Perché non pensare che Aliquò volesse favorire il boss nella sua latitanza e quindi avvisarlo di quanto accadeva facendo una perquisizione nei pressi della sua abitazione? Perché la malafede può esistere per i Carabinieri, ma non per i Giudici? Due pesi due misure. Quello che dico non è solo frutto del mio pensiero, è scritto nella sentenza di assoluzione del Capitano Ultimo.

Quindi il processo è stato fatto perché non avete indagato come la procura voleva?
È stato creduto che scelte professionali, di strategia investigativa, fossero state prese in malafede per favorire la mafia. C’era stato l’incontro tra Ciancimino (padre), il colonnello Mori e il capitano Giuseppe De Donno. Colloqui effettivamente avvenuti, come normalmente avviene per chiunque chieda di essere ascoltato. Ma Ciancimino per noi non contava più nulla, era bruciato, essendo stato già arrestato e poi rilasciato. Nessun mafioso lo avrebbe più nemmeno avvicinato. Era finito già prima, nemmeno Falcone gli aveva mai dato credito. Non è la politica che cerca la mafia, ma il contrario. È sempre il mafioso che, se ha un interesse, cerca il politico e lo usa per i suoi scopi. Ed è pure il più forte perché il mafioso non parla, ma spara e uccide. Eravamo un gruppo con una altissima professionalità, una forte motivazione e dei grandi valori. Se ci fosse stato qualcuno che ci avesse detto di non arrestare Riina o di favorire la mafia, fosse stato anche il colonnello Mori o il Comandante dell’Arma, lo avremmo mandato affanculo.
Ma quel processo, a mio avviso, come quello che sta subendo ora il Generale Mori, accusato ancora una volta di concorso in associazione mafiosa per aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, è solo uno dei processi politici contro l’attuale Governo e Silvio Berlusconi.
Ora le racconto ciò che per me è la farsa del processo a Mori. Lo accusano di non aver disposto una perquisizione in un casolare di un paese chiamato Mezzo Juso, dove un collaboratore, ora morto ammazzato, riferì di incontrarsi con Provenzano da latitante. Conosco quei fatti molto bene, svariate volte ho diretto i dispositivi esterni. [Per dispositivo si intende quel gruppo di uomini che compiono le indagini sul territorio, nda] Non vi era nessuna certezza che Provenzano fosse all’interno di quel casolare, perché di certezze il collaboratore non ne dava. Alcune volte diceva che Provenzano lo trovava già sul posto, altre volte che arrivava dopo, altre volte ancora che si incontravano in luoghi diversi. Certezza di trovarlo lì quindi, nessuna. Quel casolare si trovava a Mezzo Juso, paese vicino a Corleone ad altissima densità mafiosa, tutto era sotto il loro controllo. Il casolare era al centro di una piana scoperta, inavvicinabile senza essere notati. Giravamo lungo le strade in automobile, ma appena ci fermavamo si avvicinava qualcuno per chiedere se avessimo dei problemi. Questo non per cortesia, ma solo per capire chi fossimo. Mezzo Juso è un paese piccolissimo dove tutti si conoscono e tutto conoscono, veicoli compresi. Per osservare il casolare bisognava stare su una montagna lontana chilometri da dove non si sarebbe potuto scorgere nulla, dato che la tecnologia non era certo quella di oggi. Sono state fatte delle infiltrazioni, rischiando tantissimo, ed era stato accertato che mancava anche l’energia elettrica per poter installare un qualsiasi strumento tecnico.
In una operazione del genere non ci si può e non ci si deve fidare di nessuno. Per utilizzare un camion dell’Enel avremmo dovuto andare a chiederlo all’Enel, e ci avrebbero inevitabilmente fatto delle domande; idem se fossimo andati a chiedere qualcosa alla Telecom. Lei pensi che avevamo scoperto che un signore che lavorava alla Telecom di Palermo era un carissimo amico di un nipote di Bernardo Provenzano, molto attaccato alla famiglia. Proprio da questo episodio, invece, si riconosce la buona fede e l’alto valore del generale Mori. C’è infatti una nostra sacra regola che recita: “È meglio perderlo che essere sgamati”. In sostanza significa che se si perde di vista un soggetto, ma non si è stati individuati, c’è sempre la possibilità di ricominciare e sperare di catturarlo un altro giorno; se invece si viene individuati finisce l’indagine per sempre, bruciando quei luoghi e quegli uomini. Tutto ciò mettendo a repentaglio la propria vita e quella degli altri colleghi.
Se a quel tempo fossimo stati sgamati probabilmente Provenzano si sarebbe allontanato da quei luoghi, visto che proprio da quelle parti è stato arrestato.
Queste erano le condizioni in cui si lavorava e i magistrati lo sanno perfettamente. Per questo penso che questo processo sia una farsa, fatto solo per fini politici.

Il vostro metodo di lavoro però è rimasto.
Penso di si. Abbiamo indagato in un modo nuovo, non su un singolo reato, ma collegando più fatti assieme, cercando di scoprire quali fossero le persone coinvolte, le loro dinamiche, le loro strategie, cercando di cogliere la visione d’insieme. Metodo Falcone, metodo Ultimo.

La vostra esperienza è stata trasmessa alle nuove leve?
All’epoca la politica aveva messo pesantemente mano alla direzione dell’Arma, insediando altri generali e comandanti ed il vento cambiò. Dietro l’attacco che subimmo dalla procura di Palermo sono personalmente convinto ci fosse la spinta legata alla linea politica di Luciano Violante, ma ovviamente è solo una mia opinione. Certo è che venimmo smembrati. Io assieme ad altri rimanemmo ancora qualche anno a Palermo, ma con grosse difficoltà. Ci affiancarono dei colleghi che non duravano un mese, non riuscendo così né a proseguire le inchieste né a trasmettere nulla del nostro modo di indagare, le tecniche, il nostro bagaglio di conoscenze acquisito. Siamo stati marginalizzati e quasi tutti hanno chiesto il trasferimento. Io avevo inoltrato domanda per andare ad insegnare in una scuola d’addestramento carabinieri, mi sarebbe piaciuto insegnare agli allievi, ma l’istanza non fu accolta, così qualche tempo dopo me ne andai in congedo.

Paolo Visnoviz
15 gennaio 2011

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