Ettore Romoli, candidato sindaco alle prossime amministrative di Gorizia, sarà sostenuto da un listone civico composto da Lega Nord, Udc, Fli, La Destra, Pensionati, una lista civica per Gorizia e dal PDL, che per essere accettato in questo nobile consesso ha dovuto rinunciare al simbolo (pareva brutto).
Frequentemente le alleanze per la corsa alle amministrative locali sono state discontinue rispetto agli schemi nazionali, ed è sempre stato un sintomo particolarmente indicativo dei mali della politica. Quando si verificano queste anomalie, e se ne chiede conto a qualche leader di rilievo nazionale, la risposta che si ottiene è che si tratti di accordi locali, privi di significato politico, frutto di necessità di territorio e conseguenza di rapporti personali radicati in loco. Può darsi che sia vero, anche se rimane il sospetto che simili ammucchiate siano il semplice frutto di interessi di consorterie, dove sono il controllo delle municipalizzate e la spartizione degli incarchi a fare da potente collante, una volta trovata la quadra che accontenti le forze in campo. Tutti fratelli, quindi, appena stabilito come debba essere divisa la torta, con buona pace alle allergie di un finiano verso un pidiellino o, peggio, per un leghista e viceversa.
Rari i casi dove i vertici intervengono a mettere ordine; recentemente si ha notizia di un solo provvedimento di Alfano nei confronti di un pugno di politici che a Verona erano intenzionati ad appoggiare Tosi e sono stati per questo espulsi dal partito. Non si comprende perché a Gorizia – ma pure in molti altri luoghi – debba invece essere diverso e con quale criterio venga dato o negato il consenso a simili esotiche alleanze.
Gorizia potrebbe divenire la norma o anzi risultare anche più omogenea rispetto ad altri luoghi, rispecchiando in fondo, Udc e poi Fli a parte, lo schema della precedente maggioranza di governo. È però ben più di un sospetto che gli assetti nazionali verranno largamente disattesi, infatti è evidente che la montante ondata d’antipolitica – peraltro giustificatissima -, abbia provocato una reazione nei pubblici rappresentanti a serrare le fila, consorziandosi in alleanze un tempo impensabili per necessità di sopravvivenza. In fondo anche a massimo livello assistiamo ad un asse cosiddetto “Abc”, acronimo derivato da Alfano, Bersani e Casini, che potrebbe non esaurirsi all’ombra di Monti, con la preoccupazione principe di ripristinare gli accordi di Palazzo post voto.
Sarà interessante assistere a come reagirà l’elettorato di fronte a questo melting pot indistinto, perché sospetto non basterà mascherare da liste civiche i maggiori partiti per riuscire a trascinare gli elettori alle urne e convincerli a votare – inevitabilmente – anche per quanti solo fino a poco prima erano considerati acerrimi nemici. In questa situazione non si trovano solo i partiti che sostengono Monti, ma pure quelli dell’opposizione, costretti a spericolati sofismi per smarcarsi da posizioni sovrapponibili a quelle della Fiom-Cigl, l’ala più oltranzista della sinistra. Terribile complicazione anche per il Pd, costretto a barcamenarsi tra l’anima montiana e quella camussiana. Bersani dalla birra deve ormai essere passato direttamente al Mennen, bevuto digiuno appena sveglio.
Quello che sconcerta e sconforta è che dal governo non venga alcuna spinta in direzione anti statalista (potrebbe sembrare un ossimoro, ma in fondo questo dovrebbe fare il governo tecnico) e che anche dalle opposizioni manchi completamente una posizione liberale forte e ribelle. Da un lato sembra che il governo si preoccupi solo di settori poco incisivi per far ripartire il Paese e lo fa in modo confuso, spesso rimangiandosi decisioni già date per prese, solo dopo aver imposto l’aumento dei soliti monopolî e aver reintrodotto la patrimoniale sulla casa. Non solo, ma pur essendo universalmente definito “governo dei tecnici”, opera in modo piuttosto dilettantesco, vedi il caso dell’Imu, ancora nelle nebbie nelle sua pratica attuazione. Dall’altra, le opposizioni sembrano fare a gara per difendere posizioni conservatrici, schierate a tutela di anacronistiche prebende di stato e creando – di fatto – un inedito asse Cgil-Idv-Lega.
È possibile che il pensiero liberalista non abbia più rappresentanza in questo Paese? Così parrebbe, purtroppo, perché non esiste compagine politica che abbia il coraggio, la convinzione e la forza di combattere contro le decisioni del Governo fin qui prese. Misure depressive che non faranno altro che aggravare la pesantissima crisi che stiamo attraversando. Ad un aumento di pressione fiscale cresce inevitabilmente l’evasione, si deprimono i consumi e di conseguenza cala pure il gettito fiscale, aggravando così deficit di bilancio e debito pubblico. Sconfortante tesi suffragata dai recenti dati statistici su consumi di carburante (a febbraio benzina -20,3% e gasolio -15%), disoccupazione (sempre a febbraio salita di 0,2 punti, portandosi al 9,3%) e fallimento imprese (dato record nel 2011 con 11.615 imprenditori che hanno portato i libri in tribunale).
Molti affermano di voler ridurre i costi dello Stato, anche al Governo, di certo lo ripete quasi ogni Parlamentare, pronti – a parole – a tagliarsi pure stipendio e benefits, salvo poi andare in direzione diametralmente opposta. Chi crede in uno stato leggero, e che l’unica efficace politica d’incentivo che un governo possa attuare per rilanciare l’economia sia quella di non tartassare la parte produttiva della nazione, si ritrova solo. Al di là di eremitici pensatori, opinionisti, giornalisti (Ostellino ormai è confinato a pag. 61 del Corriere o in improbabili rubriche stile “Parla con il Grande Puffo”), non c’è nemmeno uno Scillipottino, neanche usato, cui rivolgersi.
Ed è questo, sopra ogni altra cosa, che lascia molti Italiani nello sconforto più totale: la mancanza di alternativa e con essa, di una speranza, di qualcosa in cui credere veramente, perché il “tutti insieme appassionatamente” è più adatto a qualche club di scambisti che non alla politica di un Paese.
Paolo Visnoviz, 2 aprile 2012
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