LA GUERRA DI PAOLO

L’Italia «è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale. Non possiamo accettare che a poche ore di navigazione dall’Italia ci sia una minaccia terroristica attiva». Così si è espresso il ministro Gentiloni venerdì. Fortunatamente già lunedì è stato smentito dal presidente del Consiglio, ma tanto è bastato affinché la parola “guerra” affiorasse tra talk-show, opinionisti, ecc. Parole in libertà quelle del ministro, poco ponderate, anzi, decisamente dilettantesche.

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Spero sinceramente nessuno si sogni di invadere la Libia con truppe di terra, né autonomamente né sotto alcuna egida, Nato compresa. Sarebbe un autogol clamoroso, secondo solo alla disastrosa decisione di liquidare Gheddafi. L’Isis non attende altro che questo: trascinare un esercito regolare sul suo terreno, impantanandolo in una guerra di bande. I vicoli di Tripoli sarebbero letali per qualsiasi esercito regolare.

Se pure una forza militare organizzata, preparata e determinata potesse avere qualche chances di successo, poi si aprirebbe il problema di stabilizzare il Paese. Afghanistan e Iraq, dovrebbero pur averci insegnato qualcosa. Non basta. Il pericolo – ben più grave – sarebbe un altro: quello di compattare il fronte islamico, anche quello moderato, anche le opinioni pubbliche arabe più occidentalizzate contro l’invasore infedele. A tutti gli effetti diverremmo quei crociati come l’Isis cerca di dipingerci. Per i tagliagole sarebbe una grande vittoria. Quella che cerca ad ogni costo, con ogni provocazione, con le decapitazioni, i roghi, i proclami prontamente rilanciati sulle tv di ogni parte del globo, frutto di regie per nulla improvvisate.

Di Al Qaeda non si parla quasi più, hanno passato la mano. Il leader incontrastato nella guerra contro l’Occidente è divenuto al-Baghdadi, con tanto di riconoscimento su Wikipedia dove viene definito «Califfo dello Stato Islamico – In carica – Inizio mandato 29 giugno 2014 – Emiro dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante».

Fino a quando saranno gli egiziani o i giordani a combatterli, la vicenda potrà essere ridotta a rango di guerra locale, nell’alveo di un conflitto inter-islamico. Appena gli Occidentali poggiassero i loro scarponi in Libia, quel mondo islamico si compatterebbe. Le forze ora contrapposte smetterebbero di darsi battaglia e si rivolgerebbero contro il cane invasore. Certo non l’Egitto o la Giordania, ma questi probabilmente smetterebbero di combattere l’Isis, e si siederebbero alla finestra a guardare quello che succede. Esattamente quello che oggi dovremmo fare noi, limitandoci ad appoggiare dall’esterno chi al momento più ci conviene.

Non corriamo alcun immediato pericolo di offensiva militare che possa partire da Sirte o da Tripoli, figuriamoci. Non è questo che dovrebbe spaventarci, ma ben altro. Quello che dobbiamo temere è il continuo afflusso di clandestini, tra i quali si possono nascondere ogni genere di terrorista o criminale. Uno Stato serio bloccherebbe immediatamente e con ogni mezzo questa invasione travestita da emergenza umanitaria.

Provate ad immaginare se tra le centinaia di migliaia di clandestini giunti fino a noi si nascondessero solo alcune decine di Kouachi o Coulibaly. Dormienti, sparsi sul territorio, nascosti nelle maggiori città, pronti a scattare contemporaneamente ad una determinata “ora zero”. Non ci vuole poi molto: pochi uomini determinati o invasati, una scalcinata rete logistica in grado di fornire loro dei kalashnikov da pochi dollari, una banale comunicazione e un coordinamento.

Se tre o quattro jihadisti sono riusciti a fare la strage alla redazione di Charlie Hebdo e al supermercato kosher, freddando poliziotti sul loro cammino e mandando nel pallone servizi segreti, polizia ed esercito francesi per qualche giorno, vi immaginate un attacco contemporaneo di nuclei composti da pochi terroristi nel cuore di alcune nostre città che impatto potrebbe avere? Il mio è solo un esempio dei molti modi nei quali potremmo essere colpiti, ma nessuno ci assicura non diventi una possibile, tremenda realtà. Di certo non Mare Nostrum prima né Triton ora.

Di questo e altre minacce simili il ministro Gentiloni dovrebbe preoccuparsi, invece di sproloquiare di guerra e di inviare truppe in Nord Africa. La Libia è già qui. Ora.

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