GIORNO DEL RICORDO (DI FATTI ANCORA IGNOTI)

Ai tempi dei primi anni del liceo ero di sinistra, anzi di più, ero anarchico. Mi commuovevo per la storia di Sacco e Vanzetti, leggevo Bakunin, non mi mancava alcun numero del “Male” e spesso comperavo “l’Unità”. A Trieste, un mio compagno di scuola era Menia, anzi, lo erano entrambi i fratelli, Piergiorgio e Roberto. Con quest’ultimo litigavo spesso e qualche volta, fuori da scuola, mi strappava l’Unità. Gravitava già nel Fronte della Gioventù e nessuno avrebbe detto che sarebbe divenuto Sottosegretario all’Ambiente, dopo aver ricoperto anche altri prestigiosi incarichi. Alle assemblee, le discussioni erano interminabili e spesso ci confrontavamo, partendo da posizioni antitetiche, non facendo altro che confermarci nell’arroccamento delle nostre rispettive convinzioni. Un giorno discutemmo anche della seconda guerra mondiale, dell’occupazione nazista, di Tito e dei partigiani. Affermò che se si parlava dei partigiani bisognava parlare anche delle foibe. Non gliela diedi vinta, ma un tarlo mi si insinuò nel cervello e cominciai a fare domande a tutti quelli che avevano vissuto direttamente quegli anni.

Fu un lavoro lento e difficile: ammettere che quelli che si credevano i “buoni” e i “giusti” avessero nascosto delle ombre così pesanti non fu facile. Il clima sociale e culturale attorno a me era tutto orientato a sinistra, famiglia, scuola, amici e ambienti che frequentavo. Presto però iniziai a comprendere che qualcosa della Storia mancava, non tutto veniva raccontato.
Le persone alle quali chiedevo, che avevano vissuto direttamente quegli anni, minimizzavano e rimanevano nel vago. Giustificazioni espresse anche da storici quali Sergio Luzzato che, nel suo “La crisi dell’antifascismo”, ha motivato così la violenza e l’assassinio: «la moralità della Resistenza consistette anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l’Italia a costo di spargere sangue.» Ovvero, è stato lecito uccidere perché le nostre convinzioni erano giuste.
In un celebre articolo sul Riformista, celebre in quanto Violante sbatté la porta per il titolo dato – “Mi vergogno di essere stato comunista” – scrisse riguardo le foibe: «Mi sono sentito in imbarazzo […] mi sono reso conto per la prima volta, che la mia storia politica era stata dalla parte degli aggressori, di chi legava il fil di ferro ai polsi delle vittime, prima di precipitarle, non dalla parte di chi aveva i polsi legati.»
Io invece non mi sentii in imbarazzo, mi sentii tradito e mi allontanai definitivamente dalla sinistra e, per molto tempo, dalla politica. Avevo 20 anni.

I profili della tragedia divennero via via sempre più chiari, anche se non se ne parlava. La seconda ondata di infoibamenti coincise con l’esodo delle popolazioni istriane e dalmate di lingua italiana. Più di 250.000 persone abbandonarono la loro terra e, una volta in Italia, vennero spesso umiliati, considerati fascisti e insultati o peggio, perché avevano avuto l’ardire di abbandonare il nascente paradiso comunista. Furono fortunati. Altri presero la strada delle foibe: venivano legati con il filo di ferro a due a due, a una sola delle vittime veniva fatta la grazia di una pallottola che così trascinava con sé anche l’altro, ancora vivo, nell’abisso. Alcuni finirono la loro esistenza annegati in mare, legati ad un masso, altri ancora sparirono nei campi di concentramento titini. I numeri, per non parlare dei i nomi, non sono ancora noti, i più autorevoli studiosi parlano di almeno 25.000 vittime. Queste non furono solo funzionari del partito fascista o personalità organiche all’RSI, ma indiscriminatamente civili italiani di ogni categoria, non ultimi anche appartenenti al movimento antifascista italiano.
Nel suo primo discorso di insediamento il Presidente Napolitano disse: «Non dimentichiamo le zone d’ombra, gli eccessi e le aberrazioni della Resistenza.» Ma più che non dimenticare bisogna avere il coraggio di fare piena luce, perché sebbene alla memoria condivisa non giungeremo mai, è doveroso raccontare la verità su questi ed altri tremendi episodi, indagare e cancellare l’oblio.

La strada è impervia, non mancano negazionisti, riduzionisti e l’odio, sebbene stemperato, non è ancora del tutto sopito. Nel febbraio 2009 presso la foiba di Golobivnica, in Slovenia a una manciata di chilometri dal confine, una manifestazione di commemorazione delle vittime regolarmente autorizzata, è stata bloccata da una cinquantina di contromanifestanti, alcuni dei quali appartenenti alla minoranza slovena di Trieste.
Poco tempo fa è uscito un libro di Joze Pirjevec, storico sloveno e docente dell’Università del Litorale/Capodistria, dove porta delle tesi negazioniste che rifiutano anche quanto, a fatica, si è fin qui riconosciuto.
Invece bisogna sapere, bisogna che ci sia la volontà a far sì che quei fatti diventino Storia, non per sentimenti revanchisti, ma per amore della verità. Accertare quanto accaduto intorno alle foibe, raccontare anche la storia dei vinti, non cambierà il giudizio sul nazi-fascismo, non sminuirà l’orrore della Risiera o dei villaggi dati alle fiamme e non è questo che si vuole. Piuttosto e necessario restituire finalmente dignità storica a 25.000 vittime, perché per i morti e per il dolore non vi può essere una memoria giusta ed una sbagliata.

Pubblicato su Freedom24
9 Febbraio 2010

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