MUGGIA, RITORNO AL PASSATO

Muggia è una piccola cittadina in provincia di Trieste, a ridosso con il confine sloveno ed è divenuta un triste esempio di come la cattiva politica si disinteressi della sua più banale funzione: la pubblica gestione. Per lunghissimo tempo amministrata da giunte di sinistra ha vissuto un totale immobilismo in ogni suo settore, con strade piene di buche, senza una rete di distribuzione del gas e quindi con i cittadini obbligati ad utilizzare le bombole, con una illuminazione vetusta ed insufficiente, ecc. Ma in questo piccolo comune fecero la gavetta importanti esponenti d’apparatčik, quali Willer Bordon per esempio, che scalò partito e politica nazionale a colpi di immobilismo e vuote parole (i maligni locali affermano anche a colpi di lenzuola). Desaparecidos per parecchio tempo, ha recentemente rifatto capolino dalle parti del movimento di Grillo, non si sa con quali intenzioni.

Sull’ondata del nascente berlusconismo, nel 1996, vinse le elezioni un esponente del centro-destra, Roberto Dipiazza, proveniente dalla classe imprenditoriale locale. Muggia rinacque. Vennero rifatte le strade, l’illuminazione, buona parte della pavimentazione della centro storico e vide finalmente la luce, sbloccando interminabili diatribe burocratiche, Porto San Rocco, un’importante marina con strutture e complessi residenziali di prestigio. Una manna per l’asfittica economia locale.

Alla fine dell’amministrazione capitanata da Dipiazza (il quale continuò con successo a fare il sindaco, ma a Trieste) il pallino passò in mano ad un altro esponente di centro-destra, l’architetto Gasperini, il quale mantenne il pubblico decoro agli eccellenti inediti livelli cui Muggia non era abituata. Fesserie vennero fatte anche sotto queste amministrazioni, sia chiaro, si pensi solo alla disastrosa gestione del parcheggio Caliterna e al goffo tentativo di porvi rimedio istituendo a tappeto dei parcheggi a pagamento, ma nulla di irrimediabile e nulla di così grave da scalfire un complessivo bilancio di eccellente gestione della cosa pubblica.

Nel 2006 Gasperini non venne riconfermato, perdendo per una manciata di voti contro Nerio Nesladek, comunista doc. Fu l’inizio della fine. Nesladek, nonostante avesse bloccato tutte le precedenti iniziative, visse di rendita e venne riconfermato per altri quattro anni, ma non c’era storia: il centro-destra, si era presentato alle elezioni disunito, completamente disorganizzato e – spaventato dai sondaggi che lo davano perdente – non riuscì nemmeno a produrre un candidato sindaco in tempo utile per attrezzare una campagna elettorale decente. Il criterio con cui venne scelto il concorrente fu quello di trovare un personaggio disposto ad andare al macello. Si sacrificò Paolo Prodan.

La situazione a Muggia oggi, dopo quasi un mandato e mezzo di guida comunista, è semplicemente disastrosa, con aspetti che scivolano dal contraddittorio al comico, fino al grottesco.

Il giardino prospiciente al castello di Muggia è in stato di assoluto degrado, ed è il luogo che ogni turista di passaggio visita certamente. Dopo l’inizio della sua riqualificazione, iniziata da Gasperini e interrotta per fine mandato, i lavori languirono per un paio d’anni (vox populi affermava che Nesladek, completamente digiuno di affari pubblici, non riuscisse nemmeno a trovare dove fossero i soldi della cassa), per venir ultimati tardivamente e contro voglia. Nessuna manutenzione venne più fatta, salvo i radi tagli d’erba, ormai divenuta sterpaglia. L’impianto di irrigazione si ruppe, venne vandalizzato e rimase abbandonato. Ormai le sterpaglie sono divenute piante da sottobosco, ostruendo anche alcuni varchi d’accesso. E questo – notate bene – è il biglietto da visita di questa cittadina.

Nel centro storico i caratteristici lampioni a luce “calda” (recenti, voluti da Dipiazza) vengono via via sostituiti da una nuova illuminazione a led, bianchissima, da laboratorio o sala chirurgica. Sempre nel centro storico, la rottura di una fognatura provoca una ciclica esondazione di liquami ad ogni pioggia, senza che nessuno si sia ancora preoccupato di porvi rimedio. Un giardino – graziosissimo – ricavato riqualificando una parte della cinta muraria medioevale, costato (vado a memoria, quindi potrei sbagliare) circa 70mila Euro è chiuso da un lucchetto. Non fruibile. Alla richiesta di spiegazioni mi è stato risposto da una gentile funzionaria dei vigili urbani che “il giardino è del Comune e che quindi il Comune ne fa quello che vuole”. Interpellato pure il comandante dei vigili urbani, questi ha addotto la necessità di chiuderlo per motivi di sicurezza: sarebbero state trovate delle siringhe al suo interno. Non metto in dubbio la buona fede del comandante, ma personalmente non ho mai visto a Muggia alcuna siringa a terra. Mai, in più di dieci anni, pur girando in lungo e in largo tutti gli spazi verdi nelle mie quotidiane passeggiate con il cane. Se è capitato si è di certo trattato di un evento episodico e marginale, che assolutamente non giustifica la chiusura di uno spazio pubblico, ripristinato con denari pubblici, sottratto così alla pubblica utilità. Tanto valeva lasciarlo abbandonato e non spendere tutti quei soldi.

Una delle ultime trovate del sindaco è stata quella di dotare alcuni cassonetti dell’immondizia di serrature, affinché chi non è autorizzato non possa usarli. L’ovvio risultato è che chi non ha le chiavi o le ha dimenticate, getta l’immondizia dove capita. Quando i cassonetti sono troppo pieni, idem, per la felicità delle persone che vi abitano vicino. Anche l’ubicazione non è delle più felici, eppure uno spazio antistante, un ex-lavatoio, è stato recentemente riqualificato, ma è stato concepito in modo che – salvo un paio di panchine – non sia particolarmente utile. Una parte – né piccola né grande – non serve a nulla. Per com’è concepita è semplicemente inutilizzata ed inutilizzabile. Un architetto degno di questo nome avrebbe facilmente trovato una soluzione per creare una struttura atta allo scopo, allontanando gli inevitabili effluvi dalle abitazioni.

Qualcuno potrebbe obiettare che il sindaco non abbia responsabilità, che non sia a conoscenza dei problemi causa impegni su altri importantissimi fronti. Impossibile: Nesladek è un muggesano doc, abita proprio nel centro storico, transita spessissimo per il giardinetto del castello e i cassonetti dell’immondizia di cui sopra sono quelli più vicini alla sua abitazione. Probabilmente gli stessi che lui o la sua famiglia abitualmente usano. Quindi si deve immaginare che, pur confrontandosi con questi problemi quotidianamente, non sia semplicemente in grado di risolverli. Ironia del caso: il sindaco è pure un importante esponente di “Legambiente”. Parole e non fatti, dovrebbe essere il suo slogan.

Si potrebbe ulteriormente obiettare che al Comune manchino fondi (anche se detti problemi più che dalle risorse economiche sembrano dipendenti dalla volontà e dal buon senso), ma pur non conoscendo il bilancio lo trovo difficile. Subito dopo la prima vittoria elettorale di Nesladek è partita la costruzione del centro commerciale Montedoro, una struttura ciclopica, che tra gabelle e concessioni varie deve aver rimpinguato le casse del Comune con cifre assolutamente ragguardevoli. Come siano state impegnate, lo ignoro. Di certo non in opere visibili. Nonostante ciò, l’aliquota Imu decisa dal Consiglio Comunale di Muggia è stata, manco a dirlo, mantenuta ai valori indicati dalla normativa nazionale, senza sognarsi nemmeno di ridurla dello 0,2%, pur avendone avuta facoltà. Per gli organi d’informazione locali – immaginate schierati come – va tutto bene, ovviamente.

L’unica consolazione rimanente ai Muggesani è quella che questo sindaco, per legge, non potrà essere eletto per un terzo mandato, ma i danni fin qui fatti e il livello di degrado raggiunto si riperquoteranno per anni a venire.

Paolo Visnoviz, 20 luglio 2012
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STORIE DA BAR

Non sono un essere sociale. Non bevo. Non amo le chiacchiere, figuriamoci quelle da bar. Conversazioni casuali, nate tra conoscenti, con persone che difficilmente si inviterebbero a casa propria. Non amici, ma semplici compagni di lavoro o abituali passeggeri dello stesso autobus, con i quali si discute superficialmente di calcio. E che cos’è il calcio? Da ragazzo ho giocato anch’io, perché tutti lo giocavano, ma non ci ho mai capito nulla. Preferivo correre. Correre sulle lunghe distanze. Non c’era bisogno di parlare. Si stava soli con i propri pensieri e la propria fatica. Senza fastidiosi strilli e urla: “tira”, “passa”, “devi stare lì”…

Il calcio giocato non mi appassiona, tanto meno quello parlato. È senza senso. Non si può discutere per ore, magari arrabbiandosi di episodi frutto del caso. È stolido ed inutile. E al bar, di calcio si parla. Principalmente. Quindi non ci vado. Mai.

Per di più, essendo un topo da Ced, muovendomi molto poco, spesso senza nemmeno il bisogno di fare il tragitto casa/lavoro, perché il lavoro mi arriva a casa in sessione ssh, tramite Adsl, di occasioni di entrare in un bar ve ne sono proprio poche. Ore e ore passate su di un terminale a controllare le ridondanze di un raid o a spulciare tra i file di log, per trovare errori o anomalie. La mia pausa è un caffè, non preso al bar, ma fatto con la caffettiera.

Poi la vita, a volte, cambia. Da libero professionista si possono scegliere quali lavori prendere e quali scartare, non sempre, ma a volte capita. E a volte capita di cambiare abitudini radicalmente. Così, recentemente, sono uscito dalla mia tana di bit – almeno parzialmente – per occuparmi anche d’altro. E sono entrato nei bar.

Non sono come me li ricordavo, sono cambiati. Ovunque invasi da macchinette mangia-soldi. Non ce n’è uno che non ne abbia qualcuna. E sono sempre in funzione. Quelli che hanno anche la ricevitoria e i tabacchi vendono un pacchetto di sigarette e un “gratta e vinci”, un caffè e un “turista per sempre”. Il resto, le monete da uno o due euro, finiscono quasi sistematicamente nelle slot-machines. Due colpi al pulsante e il cliente esce. Quando va bene.

* * *

Il bar era uno sporco locale di periferia. Il barista, una persona rude, con la barba lunga, sembrava infastidito d’ogni cosa, persino dei clienti che chiedevano di consumare. Lei entrò e chiese una birra. Difficile darle un’età, presumibilmente più di trenta e meno di quaranta. Bionda artificiale, con un’ampia riga nera nei capelli ad indicare il troppo tempo trascorso dall’ultima tinta. Non grassa, ma gonfia, con uno stomaco prominente che le sorreggeva l’ampio seno. La seguiva, quasi fosse un cucciolo di cane, un bambino di circa 6 anni d’età. Lei, senza nemmeno guardarlo, gli diceva di stare buono e fermo. Si avvicinò ad una slot ed iniziò a giocare. Giocava concentrata, su due macchinette contemporaneamente, nemmeno raccoglieva le monete che, di tanto in tanto, le slot restituivano.

Quando finì quelle che aveva in una specie di vasetto di plastica per crauti, iniziò ad usare anche quelle vinte. Infilava monete e premeva i tasti, senza nemmeno guardare il monitor. Mentre giocava su una già guardava l’altra. Cambiò svariate volte banconote per il corrispondente in metallo. Il bambino, annoiato, era uscito dal locale, attratto da qualcosa all’esterno. Lei non se ne accorse nemmeno. Notò la sua assenza solo quando ordinò l’ennesima birra. Uscì, lo prese per un braccio e lo riportò dentro: “Non devi uscire, hai capito? Stai qui. Fermo e buono”. Riprese a giocare.

Non sa cosa io stia facendo con antenne, cavi e strane scatolette, ma comprende che è qualcosa che ha a che fare con quelle macchinette. E questo le basta per iniziare ad attaccar bottone. Mi racconta che adesso è parecchio che perde, ma che per ben due volte ha vinto cifre importanti. Una volta 300 e un’altra addirittura 700 euro. Non so se sia vero, non mi pongo il problema. La mia unica ansia è per quel bimbo che scorrazza incontrollato per il bar. Cerco di spiegarle che non si può vincere: si chiama “speranza matematica”, sbilanciata a sfavore di chi gioca, decisa da un algoritmo. E se gioca continuativamente non ha alcuna possibilità di spuntarla, può solo perdere. Lei risponde con un grugnito di disappunto e continua a giocare.

Con il passare del tempo altri avventori si avvicinano alle macchinette e un poco alla volta il rumore diventa ubriacante. Io ormai ho finito, ho fatto il mio sporco lavoro: ho georeferenziato e connesso un’altra slot all’Ufficio delle Entrate, affinché sappia – in tempo reale e con saldi quotidiani – quanti denari quella singola macchinetta gli ha procurato. Sono valanghe di euro, cifre colossali, un sistema di tassazione improprio ed occulto per poveri allocchi disperati. Altri soldi fagocitati dall’apparato. A cosa sono destinati? Quali servizi ritornano al cittadino? Nessuno lo sa. Finiscono nel pozzo senza fondo statale.

Uno Stato biscazziere, a questo ci siamo ridotti, ci hanno ridotto. Senza l’elitaria eleganza dei casinò, portando il gioco in ogni angolo del Paese, rendendolo disponibile per tutti, per una colossale rapina di massa. Senza preoccuparsi di rovinare intere famiglie pur di continuare a sopravvivere a se stesso.

Paolo Visnoviz, 17 giugno 2012
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LIBERTÀ

Di tanto in tanto qualcuno rispolvera il luogo comune del “bisogna lavorare di più”, come soluzione agli italici problemi. Come se in questo Paese non si lavorasse, come se il problema dell’economia fosse legato ad una forma diffusa e congenita d’indolenza. È vero il contrario: si lavora anche troppo.

Nel settore privato spesso non esistono orari o giorni festivi e anche quando la serranda è abbassata qualcuno dentro sgobba. Mette a posto, sistema le fatture, chiude i conti. È sempre stato così, almeno fino ad un certo punto. Fino a quando cioè, lavorando di più, si poteva sperare di raddrizzare la baracca. Adesso prevale la sensazione che sia tutto inutile. Per quanto si lavori, per quanto ci si sacrifichi, per quanto si abbia voglia di fare, la baracca non la si raddrizza più. Le incombenze fiscali e burocratiche sono divenute soverchianti, rendendo vano qualsiasi sforzo e buona intenzione.

Nessun artigiano o lavoratore autonomo può più svolgere la sua professione per una settimana filata: un paio di giorni – se va bene – deve dedicarli alla burocrazia, al commercialista, alla banca, al Comune, alla compilazione del Registro dei Rifiuti Speciali (per una Azienda quasi qualsiasi pattume è ormai considerato “speciale”), all’Ufficio delle Imposte quando non a Equitalia. Chi è riuscito a darsi una struttura più complessa, riesce ancora a galleggiare. A patto di stipendiare un’impiegata a tempo pieno, con l’improduttivo compito – oltre a quello di svolgere normali funzioni di segreteria e contabili – di interfacciarsi con il commercialista, aruspice dei voleri dello Stato.

Nel settore pubblico non va meglio. Nei grandi carrozzoni, decisioni vitali e operative seguono percorsi illogici, scollegati dalle esigenze aziendali, condannando interi settori alla paralisi. Si prenda la Rai, per esempio, che nell’epoca della semplificazione digitale in importanti sedi il girato è ancora in Betamax e nelle redazioni usano Pc con soli 512Mb di memoria Ram. Chi ha deciso quegli acquisti (i pc non sono poi così vecchi) non si è preoccupato della produttività della Redazione, ma solo di far risparmiare 20 o 30 Euro a postazione (la differenza, all’epoca, tra 512Mb e 1 giga di Ram). E pazienza se per un’ora e passa al giorno ogni giornalista, redattore o impiegato è costretto ad aspettare l’avvio di un sistema operativo.

In Italia non si lavora poco, si lavora male. I comparti non sono collegati, mancano le infrastrutture, vi sono troppe barriere normative/burocratiche. Qualsiasi Azienda, quando si deve rivolgere al “pubblico”, subisce assurdi rallentamenti e demenziali richieste di astrusi adempimenti. Perdite di tempo, quindi di danaro. Su larga scala significa perdita di competitività del sistema-Paese.

La politica ha promesso spesso di avviare processi di semplificazione, ma troppo frequentemente si è ottenuto l’effetto contrario, sovrapponendo normativa a normativa, a volte cancellando le precedenti con procedure di pari, se non superiore, complessità. Inevitabile quindi assistere ad uno Stato sempre più ingordo di denari, intento a garantire la sopravvivenza di se stesso, sempre più complesso e kafkiano.

Ma di che vaneggiano quando parlano di “decreto sviluppo”, quindi? È solo un goffo tentativo di recuperare consenso con proposte marginali, che non promuoveranno alcuna reale spinta economica. Provvedimenti di difficile accesso, complicati, e quando qualche cittadino vorrà informarsi per scoprire se potrà accedervi nessuno saprà aiutarlo, e sarà costretto a peregrinare per giorni di ufficio in ufficio per poi scoprire che per qualche codicillo, a quella agevolazione, non ha diritto. Intanto hanno creato un altro carrozzone, “Italia digitale”, per scoprire come migliorare la Rete. Eccerto, come al solito i tecnici hanno bisogno di tecnici, anche per farsi dire cose che qualsiasi “nerd” conosce. È l’autogenerazione della nuova casta, apparentemente super partes, certamente irresponsabile.

Volete veramente “sviluppare l’Italia”? Lo Stato faccia un passo indietro, liberalizzi – che non significa necessariamente o solamente svendite e dismissioni -, ma soprattutto de-burocraticizzare gli adempimenti per chi lavora. Non servono nuove regole, ulteriori decreti, altri carrozzoni: serve solo più libertà.

Paolo Visnoviz, 16 giugno 2012
Zona di frontiera (Facebook) – zonadifrontiera.org (Sito Web)

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