ITALIANI ALL’ESTERO

Si fa presto ad invocare il diritto internazionale e ad appellarsi alla diplomazia, con il nostro metro. Agosto di qualche hanno fa. Dopo un viaggio iniziato in Italia a bordo di due Panda 2×4, primo modello, io e dei miei amici giungemmo finalmente ad Ulaanbaatar, capitale della Mongolia. Non propriamente una passeggiata, ma un viaggio-avventura (entusiasmante) durato, tra andata e ritorno, 40 giorni, che ci ha visto attraversare 12 Paesi, 2 continenti, 7 fusi orari e percorrere quasi 22.000 Km.

Giungemmo ad Ulaanbaatar, il nostro traguardo, di sera, dopo aver percorso parecchi chilometri, stanchi morti. Tempo di registrare il nostro arrivo, trovare una stanza e fare una doccia ed ero già per quelle sconosciute strade a guardarmi intorno. Solo. I miei amici rimasero in albergo a riprendere fiato.

Camminai molto, perdendomi, ritrovandomi e perdendomi nuovamente. Era da poco passata la mezzanotte quando decisi di entrare in uno dei molteplici locali di una sconosciuta via che stavo percorrendo. Uno a caso, quello che aveva l’insegna più vistosa.

Entrato, mi accomodai e chiesi una vodka. Il cameriere mi fece pagare in anticipo, 15.000 tughrik, l’equivalente di 10 dollari (una piccola fortuna). Pagai. Non mi portò un bicchiere ma direttamente una bottiglia, spiegando così il prezzo. Il locale era poco illuminato, sporco e fatiscente. Sembrava equivoco. Non feci in tempo di iniziare a bere che una decina di poliziotti fecero irruzione nel locale. Si scatenò un parapiglia generale, gente che scappava, poliziotti che inseguivano, uno di questi, munito di telecamera, riprendeva tutto.

Non mi scomposi, era una vicenda che non mi apparteneva. Ero un turista capitato lì per caso. Si avvicinò un poliziotto e, con faccia feroce, mi urlò qualcosa, indicandomi l’uscita. Mi alzai e feci per prendere la bottiglia di vodka. Me la strappò di mano e la sbatté sul tavolo, sempre urlandomi qualcosa. Un altro poliziotto mi spintonò giù dalle scale. All’uscita altri uomini in divisa attendevano. Controllavano i documenti e quando venne il mio turno una donna con i galloni, piccola ma massiccia, dal viso duro, mi sibilò: “Passport”. Replicai che il mio passaporto era rimasto in hotel, mostrandole il biglietto da visita dell’albergo. La donna in divisa scambiò qualche parola con un suo collega, questi alzò le spalle ed indicò un furgoncino.

Fui il primo a salirci. Su quel piccolo mezzo, con posti per sette persone, varia umanità fu stipata all’inverosimile, credo fossimo almeno in 15. Dopo un percorso che sembrava interminabile ci scaricarono in una stazione di polizia e ci misero in una specie di sala riunioni. C’era già altra gente, di tutti i tipi, prostitute, ubriachi, persone con il volto tumefatto o la testa sanguinante. Alcuni erano sdraiati per terra, altri erano abbandonati sulle sedie. Di fronte a noi una pedana e un paio di scrivanie dove stavano 4 o 5 poliziotti, annoiati e sbracati, a controllare. Sulla parete il ritratto di Cahiagijn Ėlbėgdorž, presidente della Mongolia, unico Paese realmente democratico, assieme al Giappone, dell’Asia orientale.

Passarono ore. Ripetutamente chiesi spiegazioni ma nessuno parlava inglese e io non parlavo mongolo. In qualche modo, a gesti, compresi che avrei dovuto aspettare le otto del mattino. Verso le quattro di notte chiamarono alcune persone e le portarono fuori dalla stanza. Dei feriti non se ne curava nessuno. A gruppi, in momenti vari, arrivava altra gente. Alle otto chiesi nuovamente spiegazioni. Mi dissero che avrei dovuto aspettare ancora. Mandai un sms agli amici affinché non si preoccupassero della mia assenza e, se possibile, mi inviassero il numero d’emergenza dell’ambasciata. Arrivate le undici, mi dissero che avrei dovuto attendere le sedici. I miei amici nel frattempo mi trasmisero il numero telefonico dell’ambasciata tedesca. E’ questa sede, in mancanza di una ambasciata italiana in Mongolia, che supplisce ai compiti di assistenza per i nostri connazionali. Composi il numero. Mi rispose un signore gentile che, in inglese, mi rassicurò chiedendomi dove mi trovassi. Non avevo idea di dove precisamente fossi, ma – seppur con una certa difficoltà – riuscii ad ottenere il numero del distretto di polizia che mi tratteneva e a comunicarglielo. Il funzionario d’ambasciata mi chiese di pazientare, neppure lui parlava mongolo e doveva trovare un interprete.

Verso le 15:00 un poliziotto mi chiamò e mi indicò la porta. Mi diede la mano sorridendo: ero libero. Risposi alla sua stretta, anche se avrei preferito ficcargli un dito in un occhio. Nessuno mi fornì spiegazione alcuna. Appena fuori chiamai il rappresentante dell’ambasciata tedesca per ringraziarlo e chiedere delucidazioni. Mi disse che non ne ha avute neanche lui, ma la cosa importante era che io fossi stato rilasciato. “Indubbiamente”, pensai.

Alla finish line mi riunii agli amici (vi lascio immaginare gli ovvi sfottò), dove incontrai pure Francois, londinese a dispetto del nome, operatore della City, rimasto bloccato per un problema di visti agli inizi di agosto tra la frontiera kazaka e quella russa, senza poter procedere o arretrare. Alla dogana furono inflessibili, obbligandolo a trascorrere ben 5 giorni e 4 notti nella terra di nessuno, all’aperto, sotto un monumento a forma di missile. L’unico aiuto lo ha avuto dai camionisti russi in transito, che lo hanno rifornito di cibo, acqua e, naturalmente, vodka.

Storie di ordinaria, demenziale burocrazia dei paesi ex Cccp. Dove la polizia, quasi sempre corrotta, è abituata ad operare con totale arroganza e, spesso, con violenza. Non esistono diritti nel deserto kazako, è inutile protestare al margine del Gobi e non si hanno maggiori garanzie nemmeno in un distretto di polizia, dove al chiuso di una putrida stanza si è in balia degli umori di un energumeno qualsiasi.

La vita in certi luoghi vale poco più di zero, anche la nostra, quella che pensiamo di invidiati occidentali. Fuori dal nostro ambiente, in alcuni Paesi, i diritti che consideriamo sacrosanti semplicemente non esistono. La nostra diplomazia, il nostro Paese non sono considerati e, in caso di guai, siamo abbandonati al caso. Non siamo americani né israeliani. All’estero siamo italiani in balia di noi stessi, possiamo contare solo sulle nostre forze.

Per questo è stato un grave errore far scendere a terra per l’interrogatorio i due marò (ammesso fosse possibile fare diversamente), forse responsabili della morte dei due pirati o pescatori indiani, consegnandoli ad un sistema giuridico arcaico, che prevede ancora la pena di morte. Bisogna sperare solo che lo status di appartenenti all’esercito italiano imponga ogni sforzo possibile alla nostra diplomazia – solitamente educata, snob e barocca – contro l’ottusa burocrazia di un paese per molti aspetti ancora retrogrado.

Diversamente quei due ragazzi del San Marco passeranno molto tempo in balia del sistema giuridico e carcerario indiano. Lo sanno bene i più di tremila italiani detenuti all’estero, a varie latitudini, non sempre per giusta causa, per i quali l’Italia ha sempre fatto troppo poco.

Paolo Visnoviz, 20 febbraio 2012
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OLIMPIADI, CORRUZIONE E PM

La decisione del Governo di negare a Roma la possibilità di concorrere per le Olimpiadi del 2020 è una scelta dolorosa, ma pragmatica. Certifica il fallimento di un sistema-paese che è sotto i nostri occhi. È una resa incondizionata all’incapacità di costruire qualcosa di pubblico, utile alla collettività, in modo trasparente e onesto. È la morte di un sogno per molti e una delusione per quanti già intravedevano la possibilità di lauti guadagni, profittando di un evento di rilevanza mondiale, con i pubblici finanziamenti. Mario Monti, forte di innumerevoli esperienze storiche negative, sapendo di non essere in grado di poter garantire trasparenza e un bilancio positivo per un evento di tale rilevanza, ha preferito dire no.

Colpa delle “cricche”, vere o presunte che siano? Colpa della mancanza di leggi adeguate? Colpa delle poche risorse per gli organi di controllo? In breve, colpa della corruzione come certificato oggi dalla Corte dei Conti. La responsabilità è quindi – per estensione e logica conseguenza – anche della magistratura, incapace di opporvisi. Magistratura che continua pervicacemente a sprecare tempo e risorse per processi che non avrebbero mai dovuto nemmeno iniziare, come quelli comunemente denominati Mills o Ruby & C.

Fino a quando alcuni requirenti saranno guidati dall’ideologia e monomaniacalmente perseguiteranno nemici politici invece dei criminali, non saranno in grado di svolgere con assenza di pregiudizio la loro funzione, trascurando il loro lavoro per inseguire sogni di gloria o pedagogici intenti di moralizzare la società, secondo propria visione.

Certi magistrati sono talmente usi all’impunità derivata dal loro ruolo da pensare di poterne profittare anche fuori dalle aule di tribunale. Non senza qualche ragione, dato che anche in questi casi corrono rischi limitati e solo quando commettono errori plateali rischiano qualche timida reprimenda, come quella comminata ieri dal Csm ad Antonio Ingroia.

La vicenda è nota. Il 30 novembre 2011 il pm palermitano partecipò ad un congresso dei Comunisti Italiani, lanciandosi in un vero e proprio comizio culminato nell’affermazione: «non mi sento del tutto imparziale. Anzi, di più: mi sento partigiano […] perché sono socio onorario dell’Anpi […] I partigiani […] ci hanno dato questa Costituzione […] sono quindi […] un partigiano della Costituzione.». Seguì un coro di critiche, dove pochi ebbero la sfacciataggine di difendere Ingroia, tra questi – ma non è una notizia – Travaglio, che per farlo ha letto a suo uso e consumo – come tante altre volte – le stesse dichiarazioni del pm. A suo tempo ne parlammo. Evidentemente non sbagliammo ad indignarci se l’inopportunità di quella partecipazione e di quell’intervento è stata ravvisata anche dal Presidente della Repubblica e addirittura dal Csm, organo sembrato troppo frequentemente più attento a tutelare la magistratura piuttosto che ad esercitare funzione di controllo sulla stessa.

Con queste armi spuntate, con l’impossibilità di ottenere garanzie che le Olimpiadi del 2020 potessero divenire un affare per il Paese e non si trasformassero invece nel solito opaco intreccio tra politica e comitati d’affari, a Monti non è rimasto che gettare la spugna.

Difficile garantire il buon funzionamento di una macchina amministrativa con una parte della magistratura impegnata a perseguire strabici fini politici, ma è una lunga storia. Una storia che affonda le sue profonde radici molto indietro nel tempo e che si conclamò con “Mani Pulite”, dove un pm come Gerardo D’Ambrosio presentò a sorpresa una fotocopia di un preliminare di vendita per l’acquisto di una casa di Roma in via Tirso 83. Documento mai trovato in originale, ma che bastò per scaricare la responsabilità solo su Primo Greganti, salvando l’allora cassiere del Pds Marcello Stefanini e il Pds stesso. Caso raro – se non unico nella storia – di un pm che si prese la briga di condurre una contro-inchiesta in favore di un inquisito, danneggiando un altro collega, all’epoca Tiziana Parenti.

Era il 1993. Primo Greganti, anni dopo, verrà condannato a 3 anni in via definitiva. L’allora Pds sarà colpito solo di striscio, Tiziana Parenti finirà in Forza Italia e Gerardo D’Ambrosio, dopo una brillante carriera, è tutt’ora un felice senatore del Pd.

“Mani Pulite”, di fatto, si spense il 6 dicembre 1994 con le dimissioni di Antonio Di Pietro e l’antecedente restituzione di 100milioni prestatigli dall’inquisito Giancarlo Gorrini, in contanti, arrotolati in fogli di giornale. Da non confondere con analoga vicenda del ’95, ma riferita ad un prestito ricevuto da Antonio D’Adamo, sempre per 100milioni, questa volta riportati nella famosa scatola di scarpe. Di Pietro, dopo un incarico come Ministro dei lavori Pubblici nel governo Prodi del 2006 e dopo essere divenuto senatore ed europarlamentare, nel 1998 fonderà l’ “Italia dei Valori”, nome che c’azzecca alla perfezione, parrebbe.

Mentre ricorre il ventennale di “Mani Pulite” la corruzione sembra più diffusa che mai, più sfacciata e pervasiva di un tempo ed è questa la vera causa – assieme a clientele, nepotismi, ecc. – di ogni deficit di bilancio e del disastroso stato economico del Paese. Proprio di questi tempi scandali e corruttele investono in pieno la sinistra e dintorni, sempre autodefinitasi “moralmente superiore”. Bisognerà vedere se Filippo Penati, Luigi Lusi e Orfeo Goracci, tutti attualmente al centro di varie vicende giudiziarie, si faranno carico di ogni responsabilità – novelli “compagni G” – o riveleranno catene di correità che porterebbero ad esiti oggi imprevedibili.

Nel frattempo niente Olimpiadi. Peccato. Forse bisognerà attendere un nuovo Bettino Craxi e il suo coraggio di denunciare in Parlamento «Basta con l’ipocrisia! tutti i partiti si servivano delle tangenti per autofinanziarsi, anche quelli che qui dentro fanno i moralisti». Chissà se adesso, a differenza di allora, qualcuno si alzerebbe da quei scranni per dire che è vero oggi come era vero ieri. Solo riconoscendo la realtà si potranno trovare delle soluzioni, altrimenti la politica continuerà ad essere una guerra per bande – di interessi o malaffare, fate voi.

Quel momento sembra ancora lontano e le inchieste, non tutte, continueranno ad essere strumentali, mentre nel Paese a troppi piacerebbe ancora lanciare le monetine come al Raphael. Sempre e solo verso i bersagli di un’unica parte.

 

Paolo Visnoviz, 16 febbraio 2012
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CAPITAN UNCINO

Sì ma di noi si può fare senza…
È tutto un grande addio,
un giorno Gondrand passerà,
te lo dico io, con il camion giallo porterà
via tutto quanto e poi più niente resterà
del nostro mondo…

(Paolo Conte)

Lo zoo dell’informazione ha sempre bisogno di nuove attrazioni, così mentre l’edizione del Times statunitense si accontenta di mettere in copertina due bei cani, quella europea ha pensato di glorificare Mario Monti, stupor mundi. Lungi da me il solo pensare di paragonare l’amatissimo nostro Premier ad un animale da zoo. Me ne guarderei bene, anche perché non si fa in tempo a scrivere «Monti Bufi» che si rischiano tre anni di galera. Dicono volessero scrivere «Monti Buffone». Al massimo avrebbero potuto scrivere «Monti Bufino».

Diminutivo che non vale sconti alle accuse d’imbrattamento e vilipendio dell’istituzione. Avessero adottato solo qualche mese fa identico inflessibile criterio nei confronti della medesima istituzione avremmo dovuto affittare l’intera Libia da usare come carcere. Schettino, con i suoi 2697 minacciati anni di carcere sarebbe stato considerato un dilettante, sorpassato di gran lunga da un Travaglio qualsiasi. Vicenda paradigmatica di come le leggi, le istituzioni, il rispetto delle stesse vengano interpretate in questo Paese: ad uso e consumo di famigli, amici, sodali di casta e a volte persino contro sé stesse. Hadíth significati dalla tribù momentaneamente significante.

Leggi, Istituzioni, Costituzione… tutto di caucciù, da tirare da un lato o dall’altro a seconda dei casi e delle convenienze. Proprio per questo è necessario cambiarle. A partire dall’art. 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, facendo così intendere che il lavoro sia un diritto da elargire e da ottenere, invece di riflettere quanto in verità è: una semplice, fisiologica necessità. Una Carta esprime principi che non sono gratuiti o retorici, ma insinuano il pensiero ed innervano la società, riflettendosi nelle azioni quotidiane, stabilendo una diffusa accettazione di un comune senso condiviso. Falsi principi creano società fallimentari, che inseguono finti miti. Ma è vero pure il contrario, per questo il primo articolo della Costituzione dovrebbe affermare, prima di ogni altro principio: “L’Italia è una Nazione fondata sulla libertà”. Sarebbe un enorme passo in avanti, spazzando via tante inutili discussioni, riconducendole all’unico vero e primigenio valore universale, pertanto individuale, collettivo, uroborico.

Mentre la stampa incensa il nostro stupor mundi, descrivendo l’incredibile successo della tappa statunitense e sottolineando come il mondo ci consideri salvatori d’Europa, S&P taglia il rating di 34 banche italiane, ma la notizia finisce, certamente incidentalmente, solo nelle barbose pagine economiche.

Evidentemente a S&P non si sono fatti contagiare dal nostro entusiasmo per qualche notaio e farmacia in più. Da tempo, tra le tante lotte di destra e di sinistra, è sparito tra le nebbie pure l’antico cavallo di battaglia prodiano per la riduzione del “cuneo fiscale”, sostituito dalla caccia all’evasore, ultimo parafulmine che consente di continuare impunemente gli innumerevoli ladrocini di Stato.

Monti continua a ripetere, con intenti ipnotici, che l’Italia ce la farà, che ce la farà pure la Grecia (attualmente in fiamme) e di conseguenza ce la farà anche l’Europa. Per il momento non si scorge all’orizzonte alcuna politica industriale, anche perché l’unica cosa di cui hanno bisogno aziende, artigiani e commercianti è meno tasse, meno burocrazia e più infrastrutture. Regole talmente ovvie e semplici da essere considerate puerili dai professori che preferiscono ricorrere ad aumentare il debito con il “fondo salva stati”, che all’Italia costerà 125 miliardi di Euro. A questo servono i sacrifici. Ad aumentare un debito che sarà onorato con la cessione di ulteriore sovranità.

È la strada che da tempo si percorre, verso un Europa economico-finanziaria che sul suo altare sacrifica genti, industrie, ricchezze, senza che nessun popolo lo voglia, senza sapere il perché, verso il nulla. Avanti tutta, direzione Europa che non c’è, con un professore nei panni di Capitan Uncino, ché Pan è morto da tanto e nessun Peter ancora si vede.

Paolo Visnoviz, 11 febbraio 2011
Zona di frontiera (Facebook) – zonadifrontiera.org (Sito Web)

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