CONOSCI FARUK? I MANIFESTI-SFOTTÒ SULLA PAGINA DEL PD

I manifesti ufficiali

Avete presente l’infelice campagna tesseramento del Pd con i manifesti “Conosci Faruk”? Ebbene, ne è nato un piccolo putiferio. Procediamo con ordine. Parte la campagna “Conosci i miei?” dove ci sono «Eva, Faruk, Luciano e Serena. Hanno passioni diverse, ma una cosa in comune. Cosa?». Ora, di cosa abbiano in comune Eva e Faruk potrebbe non calarcene di meno, che sia un foruncolo sul naso o una tessera del Pd non è importante. Quello che però non è sfuggito al popolo della rete è l’involontario e ghiotto assist offerto da questo tipo di campagna alla satira di ogni genere e tipo. Infatti in breve tempo su Facebook sono comparsi manifesti taroccati di ogni sorta, con protagonisti svariati ed improbabili personaggi, corredati da ogni genere di frase. Tutto normale.

Alcune riproduzioni satiriche

Tutto normale fino a quando il Fatto Quotidiano non ha avuto l’idea di pubblicare un manifesto-tarocco che sostituiva Eva o Faruk con il comandante Schettino. Apriti cielo! A qualcuno nel Pd sono scoppiate le giugulari, e infatti hanno reagito con indignazione: «La vergognosa vignetta ospitata oggi 19 gennaio 2012 a pagina 17 della testata ‘Il Fatto quotidiano’ è un esempio di vergogna, di codardia, di vigliaccheria che deve essere estirpata in ogni modo. E non mi venite a parlare di satira”. Confido che i legali del mio partito, del Partito Democratico, denuncino per diffamazione sia l’autore della vignetta sia il quotidiano che l’ha ospitata […] Auspico che ci sia una denuncia netta, fortissima, e che il risarcimento chiesto sia oneroso per chi si è macchiato di una simile infamia e per chi lo ha appoggiato.»

Come ben sottolineato da Il Fazioso si tratta pur sempre di satira, che «a sinistra dovrebbero sopportare e anzi glorificare visto che per anni ci hanno rotto le scatole sul fatto che “la satira non si censura”». Giusto, punto. Invece no.

L’Inkiesta riporta che c’è stata pure una reazione, «chi di manifesto ferisce, di manifesto perisce. E infatti in poche ore hanno cominciato a circolare in Rete dei “contro manifesti” che prendono in giro una delle firme più importanti del Fatto Quotidiano.» Ma nemmeno a “L’Inkiesta” sono rimasti molto felici del “Fatto”: «Almeno a parere di chi scrive, la pubblicazione di Schettino formato PD è stata dunque un’uscita fuori luogo, piuttosto infelice e aggiungerei ossessivamente gratuita. Il confine tra populismo, satira e cattivo gusto è sempre più labile.» Vale anche per loro quanto detto da Il Fazioso, ovviamente. Punto. Invece no.

Perché la cosa più comica di tutta la faccenda non sono tanto i pur gustosissimi manifesti-sfottò nei confronti del pidiellino Faruk, ma il fatto che buona parte di questi sono presenti proprio sulla pagina Facebook ufficiale dell’iniziativa “Conosci i miei?” targata Pd.

Ed ora che faranno, si denunceranno da soli?

 
 
Qui i link agli snapshots, perché prima o poi impareranno pure loro come si cancellano i tag.
Pagina ufficialeConosci i miei, fotoFoto grandi dimensioni (22 Mb)
 

Paolo Visnoviz, 20 gennaio 2011
Zona di frontiera (Facebook) – zonadifrontiera.org (Sito Web)
Legnostorto – 20 gennaio 2012

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LA NAVE AFFONDA

La nave affonda. No, non mi riferisco alla Costa Concordia né a Francesco Schettino. Anzi, di questa vicenda non ne ho parlato – e non ne parlerò di certo ora – perché sono rimasto schifato per come è stata trattata da tutti gli organi d’informazione e provo orrore per la lapidazione mediatica inflitta al Comandante. Massimo rispetto per le vittime e condoglianze ai loro parenti per questa tragedia, ma non si può condannare alcuno sulla base di ricostruzioni giornalistiche. Per “nave che affonda” intendo il nostro Paese, e non è mia intenzione lanciarmi in alcuna demenziale metafora con quanto occorso sulle coste dell’isola del Giglio, come da più parti si è potuto leggere.

Draghi sta lanciando dichiarazioni allarmate per tutta l’area euro, più di una fonte autorevole dà per certo il fallimento della valuta unica e, dopo la recente perdita della tripla A della Francia, nemmeno la Germania sembra più tanto al sicuro. L’Fmi prevede nel 2012 per l’Italia un pil a meno 2,2%: recessione secca. La governance europea è incapace di una politica chiara ed efficace che, almeno nelle idee, sappia proporre delle soluzioni alla grave crisi in atto.

Mario Monti le idee le ha ben chiare, invece. Peccato siano sbagliate. Con le misure che ha posto in essere l’unica speranza che ha di recuperare gettito deriverà dalla tassazione indiretta: accise, Iva e dall’Imu. Cioè da quelle forme di tassazione dalle quali non si può proprio scappare, a men di non trasferirsi in un altra nazione, che è quanto stanno facendo una marea di aziende. Il livello di pressione fiscale, già prima insopportabile, ha raggiunto picchi insostenibili per chiunque. Il risultato sarà di aumentare il numero delle aziende che chiuderanno, generando economia sommersa, e le fughe di imprese e capitali.

In Slovenia un dipendente con uno stipendio d’ingresso di 900 euro costa al datore di lavoro la bellezza di 1.200 Euro, compresi i costi previdenziali e assicurativi. In Italia, lo stesso dipendente, per il medesimo stipendio, grava sull’azienda per più di 2mila euro. Il che significa che un imprenditore italiano spende per tre dipendenti la stessa cifra che uno sloveno spende per cinque. Sempre in Slovenia il gasolio per autotrazione costa meno di 1,3 euro/litro, quello per il riscaldamento meno di 1 euro/litro. Non esiste il bollo per gli autoveicoli, le assicurazioni si pagano molto meno. Il costo dell’energia elettrica è ridicolo: una famiglia di tre persone, per un appartamento di 70 metri quadrati, può arrivare a pagare 120 euro al mese. Vi sembra molto? Considerate che una simile bolletta arriva solo nella stagione invernale. Infatti molti condomini si riscaldano elettricamente e quindi quel costo comprende pure le spese di riscaldamento. Diversamente, per una abitazione rurale o una piccola villetta, con impegno di 6 Kw (non credo esista di meno), si paga circa 15/20 euro al mese. Ma loro hanno buona parte del fabbisogno energetico garantito da Krško, una centrale nucleare, mica da pale eoliche o pannelli solari.

Parliamo di un Paese europeo, con la valuta in euro e con merci, aziende e persone che possono liberamente fare concorrenza – e la fanno, eccome se la fanno – al nostro. Non solo ci sono imprese di costruzione, trasporti o del comparto alimentare che vendono o vengono ad operare in Italia, ma ci sono pure tantissime aziende italiane che si stabiliscono in Slovenia, con tanti saluti a Monti. Lo stesso accade anche con l’Austria o addirittura con la Svizzera, dove un caffè costa più di 3 euro. Eppure, nonostante il tenore di vita più elevato del nostro, ci sono imprese che traslocano nel paese del formaggio con i buchi, preferendolo al paese che i buchi li ha invece nel bilancio.

Non ci sarà decreto “cresci Italia” che ci salverà, è una questione di mercato. Soprattutto non sarà il decreto di Monti sulle liberalizzazioni a risolvere alcunché. Sono una beffa, non vanno a sostegno dei settori produttivi, ma se la prendono con i tassisti oppure con le farmacie, con il risultato – se passeranno – di impoverire il reddito dei primi e di spostare gli utili di una categoria protetta come quella dei farmacisti a favore di un settore che non ne ha bisogno, come quello della grande distribuzione. L’intento, goffo e insufficiente, spera di abbassare i costi di beni e servizi. Lo si vede anche con la riforma per i distributori di carburante, che potrebbe portare ad un risparmio di circa 10 centesimi alla pompa. Bene. Peccato però che se paghiamo la benzina più di tutti in Europa è colpa delle accise, non del benzinaio che non è libero di rifornirsi dove più gli conviene.

L’enorme pressione fiscale, l’assoluta incapacità di “leggere” il Paese da parte della classe dirigente, il pugno di ferro dell’Agenzia delle Entrate, le gravissime difficoltà che incidono su strati sempre più larghi della popolazione stanno producendo l’unico risultato possibile: scioperi, proteste, bombe a Equitalia, ecc.

La situazione è esplosiva e il Movimento dei Forconi, partito dalla Sicilia, sta contagiando altre zone del Paese. Non sono indignados, sono incazzati neri. Non sono figli di papà che vanno a campeggiare in qualche bella piazza d’Italia, questi la piazza la bruciano. Non basterebbe una Costa Concordia a settimana per silenziarli; nemmeno basteranno le accuse di collusione con la mafia, come fossero un Tortora qualsiasi, per zittirli. Questi – tassisti, pescatori, camionisti, agricoltori, allevatori, ecc. -, sono capaci di paralizzare l’Italia in due giorni e di ridurla alla fame in poco più di una settimana. Basta vedere com’è ridotta la Sicilia dopo pochi giorni di blocco: distributori senza benzina, supermercati vuoti, un’intera regione paralizzata. Potrebbe essere solo l’inizio di una protesta più estesa, anche se più probabilmente pure questa rivolta si esaurirà e non riuscirà a scuotere tutta la società. Queste reazioni, i professori, luminari europei, dovrebbero conoscerle, prevederle o perlomeno averle studiate su qualche libro di storia per prevenirle. Dovrebbero sapere cosa significano. La campana d’allarme che la direzione presa è sbagliata ormai dovrebbe essere suonata ben forte, eppure nulla: Monti continua imperterrito per la sua via, massacrando la parte produttiva della nazione pur di continuare a mantenere intonsi e ben pasciuti gli insaziabili, sterminati apparati burocratico-statali.

Eppure la soluzione per far ripartire l’Italia ci sarebbe (euro o non euro), semplice ed ovvia: un’aliquota secca del 20%, defiscalizzazione del 50% per carburanti ed energia, totale sburocratizzazione del mondo dell’impresa lasciando così le risorse in mano a chi sa farle fruttare. L’Italia ripartirebbe. Già, però lo Stato come sopravviverebbe? Semplice: dimagrendo all’osso e rendendo trasparenti i costi della pubblica amministrazione, che nella loro voluta complessità sono la vera causa di ogni deficit, debito pubblico e fonte, questa sì, di arricchimento illecito ed esentasse. Potrebbe bastare. E se non bastasse si dovrebbe procedere a licenziare parte di quella immensa mole di dipendenti pubblici, assunti per clientela, e che potrebbero essere assorbiti da un settore privato divenuto florido e trainante. Ripartiremmo a razzo, altro che Bric!

È un sogno che non si avvererà, ovviamente, e lentamente dovremo bere l’amaro calice fino in fondo, consumandoci in questa straziante agonia fino a quando non ci saranno più denari nemmeno per pagare sanità, pensioni e dipendenti statali. A quel punto anche l’Italia che vive nelle riserve, brucando l’erbetta che lo Stato elargisce loro, si renderà conto in che drammatica situazione ci ritroviamo. Fino ad allora non ci sarà alcuna rivoluzione, ma per ingannare l’attesa possiamo intanto tifare per i Forconi.

Paolo Visnoviz, 20 gennaio 2012
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Legnostorto – 20 gennaio 2012

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L’EROE DELLA BEFANA

L’eroe della Befana è Alessandro Rimassa, balzato agli onori delle cronache per aver denunciato al 117 un panettiere per la mancata emissione di alcuni scontrini. È interessante il suo ragionamento perché dall’episodio che lo ha visto protagonista giunge a fare i conti in tasca al pizzaiolo notturno, calcolandogli un guadagno non dichiarato annuo pari a 308mila Euro. Non si ferma qui, ma facendo volare la fantasia ed affermando che «l’evasione si propaga in maniera esponenziale» giunge alla conclusione che detto reato – se il panettiere avesse anche solo un emulo per provincia – movimenterebbe un’economia sommersa pari a 33milioni di Euro. Ovviamente il ragionamento è completamente sballato, e l’unica cosa che è riuscito a dimostrare è di non avere idea di cosa sia un registro dei cespiti ammortizzabili e, più in generale, di come funzioni una azienda; ma non è questo il punto. L’eroe della Befana è uno scrittore e come tale dovrebbe essere in grado di mettersi nei panni della varia umanità che incrocia il suo destino, possibilmente comprendendola; perlomeno dimostrando minor scontata fantasia, uscendo dall’ovvio e dal prevedibile.

La caratterizzazione del pizzaiolo che Rimassa tratteggia è perfettamente in scia al mainstream dell’informazione e al clima generale di caccia all’evasore, nemico della società, causa principe di ogni italico disastro: il furbetto si mette in tasca almeno 300mila Euro in nero, certamente guida un Suv e le ferie le passa a Cortina, entrando solamente in negozi, alberghi e ristoranti che non rilascino regolare scontrino; mentre a noi qui tocca soffrire e pagare, pagare e soffrire anche per lui. Ovvero descrive un personaggio mitologico, utile parafulmine per attirare l’ira degli italiani che altrimenti si scatenerebbe su chi sta massacrando il Paese di tasse. La Repubblica, al governo ci fossero altri, definirebbe l’autore “servo” e quanto da lui scritto “stampa di regime”. Absit injuria verbis, non stento a credere che la reazione di Rimassa sia scaturita da un moto insopprimibile e spontaneo, ma ciò rende il fatto ancora più preoccupante e ben delinea il clima da caccia all’untore che pervade il Paese.

In realtà, da quanto comunicato da Princi – società proprietaria di una catena di panetterie di successo, tra cui anche quella denunciata da Rimassa -, si evince che la verità sarebbe più banale e non conterrebbe alcun tratto di esempio sociologico, né di educazione morale per le masse: potrebbe trattarsi soltanto di un banale caso di dipendente infedele che ha pensato bene di arrotondarsi lo stipendio.

In letteratura un episodio reale serve da spunto ad una narrazione; è una molla che innesca delle concatenazioni prima solo latenti nella mente dell’autore, non è cronaca. Quindi pur non conoscendo in dettaglio il caso in questione, né la realtà della panetteria chiamata in causa – anzi proprio per questo – si può tentare di aggiungere alle due ipotesi appena esposte pure una terza lettura, contribuendo a costruire l’iperromanzo.

In questo caso il panettiere è il titolare del negozio e gli affari gli vanno sì bene, ma non tanto. Ha una marea di spese aziendali e personali. Ha due figli, due mogli, due case di cui in una non vi può nemmeno metter piede, mentre per l’altra paga ancora il mutuo. Possiede una automobile bella – anche se non un Suv – acquistata in leasing. La crisi lo ha messo in difficoltà e ha cercato di farvi fronte aumentando le ore lavorate. Tiene aperto anche di notte. Guadagna, a conti fatti, meno di un suo dipendente. Ha un fido in banca che raschia perennemente il fondo, anche a causa delle immense rate dei macchinari nuovi che ha dovuto acquistare per tentare di rimanere competitivo sul mercato. Al 9 di gennaio dovrà portare in banca ben più di qualcosa: oltre ai mutui e alle ricevute bancarie dei fornitori si sono sommati oneri, competenze e interessi. Tanti, visto che è sempre in rosso. La prima moglie minaccia di andare dall’avvocato. Cerca quindi di emettere meno scontrini che può: ormai è divenuta una questione di sopravvivenza. Lavora con angoscia, da anni, e maledice il giorno che non ha ascoltato suo padre che lo voleva spensierato impiegato alle Poste.

Fantasia? Nel caso delle panetterie Princi sicuramente. Ma quest’ultima narrazione è un ritratto piuttosto fedele della realtà quotidiana di molte aziende, piccole imprese ed artigiani massacrati da una pressione fiscale sul reddito che è giunta a sfiorare il 70%, che per soprammercato ignora molte voci di spesa considerandole indetraibili, di un sistema bancario avverso e di tanti altri balzelli nascosti nelle pieghe dell’amministrazione.

E si vorrebbe pure che chi combatte per la sopravvivenza si preoccupi della morale fiscale, per portare oro alla Patria, ad uno Stato divenuto vessatorio e nemico, che in cambio dà poco e male e solo chiede pur di continuare a garantire abnormi privilegi alle sue oligarchie e corporazioni? Buoni sì, patrioti pure, fessi chi può. E a chi non può Equitalia, ver-gogna e berlina digitale.

Paolo Visnoviz, 10 gennaio 2012
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Legnostorto – 10 gennaio 2012

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